Dalle 21.00 alle 18.00 del giorno sucessivo a 75 chilometri all'ora. Dentro i vagoni la solidarietà di chi condivide un'odissea. Tra gabinetti impossibili e posti in piedi
Guardi il marciapiedi di Porta Nuova e ti sembra di vederci impronte. Milioni di impronte. Non è solo la neve che conserva le orme, la tua insieme con quelle degli altri viaggiatori. No, è che accanto a te senti i viaggiatori che per decenni sono arrivati qui per prendere questo stesso treno: “Intercity Torino-Reggio Calabria delle 21,05 in partenza”, annuncia l’altoparlante. E tu immagini uomini, donne, bambini che arrivavano proprio dove sei tu, con la valigia tenuta insieme dallo spago per farci stare vestiti, regali e pensieri. Quando gli immigrati eravamo noi, questo treno è stato il filo che attraversava l’Italia, che in qualche modo la teneva insieme.
Il viaggio di per sé è un simbolo. Ma qui c’è questo treno che sembra lo stesso di cinquant’anni fa. Ti viene quasi da ringraziare le Ferrovie per la loro decrepitezza, per le stazioni e i convogli che paiono pezzi da museo e aiutano memoria e immaginazione: è cambiata la voce degli altoparlanti (oggi c’è quella del sintetizzatore che sembra un cinese con le adenoidi) e ci sono i tabelloni elettronici. Ma il resto è lo stesso: la campanella che annuncia arrivi e partenze, i respingenti consumati, le motrici con milioni di chilometri. E i vagoni con la vernice che si stacca e rivela decenni di servizio. Tocchi la maniglia della porta e immagini quante mani l’hanno afferrata prima di te. Ancora un attimo prima di salire. Osservi Torino con le luci scheggiate dalla neve che cade e ti senti come il viaggiatore di Gogol: guardi le valigie e capisci che non appartieni più al luogo dove ti trovi, ma non sei ancora partito e la meta è lontana. Sei sospeso a mezz’aria. Natale, gli aerei ci portano alle Maldive. Ed è giusto, democratico, che per tutti (o quasi) il mondo sia a portata di mano. Ma ti chiedi: conosciamo ancora l’Italia? Che cosa è diventato il nostro Paese? Guardi i dieci vagoni in fila e pensi che sarebbe utile a tanti prendere questo treno.
Eccoci allora sul Torino-Reggio Calabria. Intercity Notte 791. Forse il treno con la percorrenza più lunga: oltre 1.600 chilometri. A sentire l’altoparlante che snocciola le fermate come un rosario ti prende lo smarrimento: Torino, Asti, Alessandria, Tortona, Voghera, Stradella, Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna, Rimini, Ancona, Pescara, Termoli, San Severo, Foggia, Barletta, Bari, Gioia del Colle, Taranto, Metaponto, Policoro, Trebisacce, Sibari, Corigliano Calabro Rossano, Cariati, Cirò, Crotone, Cutro, Botricello, Cropani, Catanzaro, Soverato, Monasterace, Roccella Jonica, Gioiosa Jonica, Siderno, Locri, Bovalino, Brancaleone, Melito e infine Reggio Calabria. Sono 44 fermate, 9 regioni.
Gli operai della Fiat ora sono pensionati
Guardi le rotaie che si perdono nel vapore della sera di dicembre, davvero ti sembrano un filo che attraversa tutta l’Italia e in fondo quasi vedi lo Stretto. Ma le ruote cominciano a cigolare, le porte si chiudono e i mondi si separano. Fuori i volti pronunciano parole incomprensibili, le mani si agitano, si protendono. Proprio come nel capolavoro di Umberto Boccioni: “Gli addii”, con le diverse sorti di quelli che partono, ormai avvolti nel vortice del movimento, e quelli che restano, piegati nei loro pensieri verso l’uscita della stazione. Allora per la prima volta guardi i tuoi compagni di viaggio. No, non ci sono più, come negli anni Cinquanta, gli operai della Fiat che tornano al Sud. O meglio: ci sono anche loro, ma oggi sono pensionati. Li riconosci dalle valigie, dalle mani consumate. Ma adesso accanto a loro, che appena saliti riprendono il dialetto, ritrovi studenti e nuovi immigrati: africani, slavi, arabi. E poi qualche prostituta che si sposta dove la polizia fa meno questioni. La nuova Italia, quella fuori dagli Eurostar.
È un attimo. Poi ti prende una preoccupazione pratica, quasi una questione di sopravvivenza. Del resto il bigliettaio l’aveva detto: “Cuccette occupate, posti a sedere non garantiti”. In fondo il patto era questo: viaggiare davvero con la gente del Torino-Reggio Calabria. Condividere tutto. Anche se è un’esperienza no limits. I più previdenti trascinano le enormi valigie attraverso il dedalo dei corridoi, fino alla sospirata cuccetta. Gli altri provano a procurarsi un cubicolo dove rintanarsi. I posti a sedere? Sono prenotati, pare, anche se non è scritto da nessuna parte. Vince chi adocchia un posto ancora libero, dura quel che dura, magari una manciata di minuti. Lo scompartimento pare disegnato da un sociologo. Sei compagni di viaggio, sei storie diverse: accanto ti ritrovi Rosario Uliano, camionista di Napoli, poi ecco Marco Isabelli, studente di Cosenza. Davide Bizzarri, di Reggio Emilia, di lavoro fa l’ingegnere alla Ferrari. Accanto a loro due donne marocchine: una silenziosa, con il velo che lascia vedere i denti bianchissimi. La sua amica è vestita come tante ragazze italiane, la gonna corta, i fuseaux attillati. È bella, davvero, con il naso all’insù e gli occhiali eleganti che incorniciano occhi color nocciola. Gente diversa che fuori di qui non scambierebbe una parola. Ma è il momento dell’euforia, ti senti ancora addosso lo slancio del treno che lascia la stazione e snocciola i vagoni per la pianura buia. Sei persone, sei accenti diversi. Di nuovo pensi: ecco l’Italia di oggi. Sono tutti viaggiatori abituali sul 791. Ognuno con le sue storie da reduce. Rosario è un fiume in piena: “Una volta ho beccato due… appiccicati… facevano dei versi… stavano proprio… Ma quando sei a caccia di un posto sopporti tutto. Basta dormire”. Anche se spesso è dura: “Una volta c’era la neve dentro il treno, i ghiaccioli”, giura Rosario. Marco di “Torino-Reggio” ne ha fatte tante, potrebbe mettersi le tacche sulla valigia. Ormai ci scherza su: vagoni roventi d’estate e gelidi d’inverno, ritardi che si misurano in ere geologiche, viaggiatori che dormono nei pensili per le valigie.
Il treno corre attraverso la pianura bianca di neve. Appena il tempo di immaginare la vita dietro le finestre illuminate: ecco un’ombra oltre i vetri di una cucina, un salotto con la luce viola della televisione, vetrine con abiti da sposa. Passi accanto a milioni di persone. Sfiori amici che non ricordavi più di avere. Mandi sms come messaggi in una bottiglia. Ecco il controllore, baffoni e modi spicci. Guarda rapido il biglietto di Davide, l’ingegnere, e Marco, lo studente. Poi punta sulle due marocchine e passa dal “lei” al “tu”: “Non avete pagato il supplemento intercity”. Le donne spiegano: “In stazione ci hanno dato il biglietto per un espresso”. Il capotreno è secco: “Era un espresso fino a domenica scorsa, adesso è un rapido”, sentenzia. “Va bene, paghiamo la differenza”, si offrono le due ragazze. Da Torino a Piacenza, fanno 5 euro. Ma il capotreno non si accontenta: “Dovete pagare la multa”. Duecento euro di sanzione, per cento chilometri su un treno scalcinato. Il tutto condito da battute sprezzanti: “Ma che credi che vendo cipolle?”. Stacca il verbale e se ne va. Certo, non dev’essere una gioia passare le notti cercando di governare un treno dove succede di tutto, dove cammini barcollando e facendo acrobazie tra gente che dorme in terra. Ma chissà se le due ragazze fossero state di Milano. Davvero questo treno è un porto. Si sale, si scende. E la carrozza 10 scoppia. A Bologna – il treno è puntuale al secondo – sale Vale, una bimba di sei settimane, ma non riesce nemmeno a raggiungere lo scompartimento. Piemontesi, lombardi, calabresi, pugliesi, marocchini e senegalesi se ne stanno accartocciati in ogni angolo libero. È la democrazia del treno. Si sta insieme, si condivide il disagio. Non si litiga, anzi, si solidarizza. Ci si scambia qualche panino, sì, perché sul 791 non c’è uno straccio di bar, di carrello per il cibo. Niente. Qualcuno cerca di sconfinare nell’ultima carrozza. Il paradosso: mentre i vagoni letto scoppiano, la carrozza più nuova (la 12) è tiepida e pulita, ma inaccessibile. Ognuno cerca un brandello di sonno, coltiva sogni di luoghi e volti lontani migliaia di chilometri. Non c’è, però, la straripante vitalità di un vagone indiano, ma un senso di grigia stanchezza.
Alla fine il cronista e Mario Molinari (il regista che lo accompagna) riescono a infilarsi in due cuccette vuote. Ecco la notte in treno, una sofferenza che assapori goccia a goccia: la famiglia bolognese che ti accompagna scivola nel sonno. Ognuno con il suo respiro, quello più veloce della ragazzina, quello pesante dei genitori. Fuori ti passa accanto l’Italia. Attraversi città, paesaggi, climi diversi. Dallo spiffero del finestrino non entra più l’odore della neve, ma un profumo che sa di terra, via via di mare: l’Adriatico. Il treno cigola e si contorce con un barrito metallico.
Lo sbocco sul mar Adriatico
Le Marche passano nella notte più fonda. E tu immagini il paesaggio con le parole del poeta-chirurgo marchigiano Luciano Roncalli: “Sempre una stazione esiste (esisterà)/ovunque (con poco calore) una sala d’attesa/entro il freddo cuore dell’inverno…/dove tu parlavi fitto/fitto la mano di lei stringendo teneramente”. Forse è così, anche in questo momento. Molinari prende immagini. Misura. In cuccetta ci sono 94 decibel di rumore, quasi come su una pista di aeroporto. Temperatura: 14 gradi, da battere i denti. Il “cuccettista” si affaccia allo scompartimento: “Sono arrivate le coperte”, e ti porge un pile nuovo di zecca. Ma proprio in quel momento il riscaldamento parte: “Tenetele. Regalo delle Ferrovie”. Quelle che avanzano finiranno abbandonate sul pavimento. L’alba illumina un cielo così diverso da quello di Torino: adesso l’azzurro è caldo, vicino, appoggiato sulla pianura dove i contadini stanno già lavorando. Trinitapoli, San Severo e alla fine Bari. Qui il destino dei viaggiatori si divide: metà convoglio andrà a Lecce, la coda a Reggio Calabria, unita a un convoglio gemello partito da Milano. Un’ora di pausa, scendi che barcolli e ti senti le orecchie martellare. Sono passate dodici ore, in aereo saresti già a Los Angeles, e sei in Puglia. Invece del jet-lag il train-lag. È lo stesso un’avventura: il treno si rimette in moto e dimentica i passeggeri. “Decine di persone si sono messe a correre dietro ai vagoni… donne, anziani, bambini… una scena pazzesca”, racconta Rosa Spina. Succede anche questo sul 791, ma lo metti in conto. Come la fame e la sete: ma quando arrivi in Basilicata, e dai finestrini ti vedi correre accanto i prati che scivolano in mare, con gli occhi ti aggrappi alle insegne di ogni bar. La richiesta è vana: “A bordo non c’è nulla”. Ti viene da imprecare contro le Ferrovie, ma il 791 racchiude i difetti e anche i pregi dell’Italia. “Faccia una corsa al bar della prossima stazione”. Roba da infarto, tre minuti per mangiare e pagare, altrimenti resti piantato a Policoro. E invece no, perché anche un macchinista scende per il caffè. Un treno su misura che ti aspetta. E, miracolo, l’orario è perfettamente rispettato. Anzi, a Trebisacce sei in anticipo. Certo, i tempi sono fissati su medie da bicicletta: 75 all’ora. Ma l’importante è arrivare. Esserci stati. Allora avanti, chilometri, stazioni scalcinate dove la cosa più bella sono i messaggi sui muri: “Se hai bisogno di me, bacia la pioggia”.
“Si attraversano terreni collinari, argillosi… sempre più vasti, sempre più desolati, finché la coltura muore in paesaggio lunare di crete nude, d’un bianco grigio somigliante al colore delle ossa secche”, scriveva Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”. Non ti serve consultare l’orario per capire che hai superato l’ultimo confine e sei in Calabria. Ma il paesaggio descritto da Piovene negli anni Cinquanta è cambiato. E non in meglio.
Ovunque paesi cresciuti senza un centro, strade sghembe, mezze abbandonate e, però, illuminate da lampioni nuovi, scheletri di case mezze abitate. Ma non è vero che la gente della Calabria non voglia parlare della propria terra e dei mali che l’affliggono. Anzi, pronuncia quella parola, “’ndrangheta”, senza che nemmeno tu glielo chieda. Diverse, però, sono le tinte, a seconda dell’età. Attilio Cetti, da quarant’anni nelle Marche, è più amaro: “Vengo, perché questa è la mia terra. Ma mi ha dato così poco… la ‘ndrangheta asfissia”. Proprio come Maria Policarpo emigrata a Sesto San Giovanni negli anni Sessanta: “La mia casa ormai è a Milano. No, non mi sento traditrice. È la Calabria che mi ha tradito”. Ascoltare i giovani è diverso. Enzo Datena, 28 anni, studente di giurisprudenza a Milano, torna a casa per Natale. Se gli chiedi se si senta calabrese o lombardo non ci pensa un attimo: “Sono italiano”.
L’ultimo confine, benvenuti in Calabria
Locri, Bovalino, Brancaleone, nei campi affacciati sul mare compare una vegetazione incontenibile: agrumeti con arance che piegano i rami, centinaia di ulivi contorti, secolari e un’erba gialla che pare oro. Il treno è stanco, come i suoi ultimi superstiti: i bagni ormai sono lerci, senz’acqua e sapone, i water turati. Nei corridoi mucchi di lenzuola usate. Però dopo 1600 chilometri poteva essere peggio: il 791 approda a Reggio Calabria alle 18,05. Puntuale. Dalla stazione sulla riva ecco le luci dello splendido lungomare; di fronte la Sicilia che sembra avvicinarsi spinta dal vento. Quindici gradi, abbiamo attraversato l’Italia e le stagioni. Però, qualcosa di cupo ti accompagna. Saranno le nuvole basse che premono dallo Stretto o forse i titoli neri e pesanti dei quotidiani locali, sempre con quella parola “’ndrangheta”. Una cappa. Eccolo il paradosso della splendida e disperata Calabria (e dell’Italia): una regione tra le più povere è nelle mani di una forza che sta conquistando il Paese, dalla Lombardia, alla Liguria fino all’Emilia. Anche questo filo ha seguito il nostro treno. E non basta ripercorrerlo all’indietro per liberarsene.