La fine dell’anno è tempo di bilanci e di propositi per l’anno che comincia. Il bilancio del 2010, per quanto concerne le questioni legate alle regole della Rete ed alla politica dell’innovazione in Italia si chiude – e non è, sfortunatamente, la prima volta – in rosso. Nella relazione al bilancio, con formula sintetica, potrebbe scriversi che i tentativi – in taluni casi riusciti ed in altri falliti – di mettere bavagli e legacci alla Rete ed ai contenuti che attraverso essa circolano, sono stati decisamente più numerosi delle proposte – in nessun caso attuate – di guardare ad Internet ed all’innovazione come ad uno stimolo e, soprattutto, come ad una opportunità di riconoscere ai cittadini nuovi spazi di libertà ed inedite opportunità di confronto, partecipazione ed accesso all’amministrazione della cosa comune.
Azzardare una sintesi dei dodici mesi che stiamo per lasciarci alle spalle è impresa ardua che impone un faticoso cammino a ritroso nel tempo tra le gesta, nella più parte dei casi ben poco eroiche, di politici che hanno preteso di dettare regole destinate ad essere applicate ad universo a loro sconosciuto o, peggio ancora, che hanno consentito ai poteri forti della hold economy di scrivere leggi destinate a cercare di perpetuare le proprie posizioni di monopolio ed i propri privilegi, frenando ed ostacolando l’avanzata del nuovo. E’ accaduto così che il Paese è rimasto un’isola analogica in un universo digitale, che l’agenda politica continua ad essere dettata da pochi giornali di carta e da un pugno di televisioni ancora saldamente controllate dai soliti noti, nonostante in Rete scorra un fiume di informazione e contenuti in grado – come ben dimostra la vicenda Wikileaks – di sgretolare e far vacillare persino le roccaforti della diplomazia internazionale.
Cosa è accaduto nel 2010, nel nostro Paese?
Chi ha voglia e tempo trova in questo video alcune risposte, mentre chi ne ha meno trova qui di seguito un tentativo di sintesi.
A gennaio il ministro dei Beni e le attività culturali Sandro Bondi ha varato una nuova disciplina del c.d. equo compenso per copia privata. Fuori di giuridichese, significa che oltre 100 milioni di euro vengono prelevati coattivamente dal mercato dei dispositivi e supporti idonei alla registrazione di contenuti audiovisivi [telefonini, Pc, hard disk, pendrive, memory card ecc, nda] e, naturalmente, dai consumatori sui quali i produttori di tali apparecchi li riaddebitano, per essere poi consegnati nella mani della Siae, la quale trattiene per sé una lauta provvigione e redistribuisce, secondo regole ignote ai più, il resto agli aventi diritto. Un primo bell’esempio di modernità per iniziare l’anno.
A febbraio, il ministro della Pubblica amministrazione e l’innovazione, Renato Brunetta, annuncia che il Consiglio dei Ministri, su propria proposta, ha approvato il nuovo codice dell’amministrazione digitale che – sono parole sue – “segna il passaggio dall’amministrazione novecentesca (fatta di carta e timbri) all’amministrazione del XXI secolo (digitalizzata e sburocratizzata)”. La principale novità contenuta nel Codice dell’amministrazione digitale che, peraltro – a quasi un anno dall’annuncio – deve ancora entrare in vigore, è l’introduzione nel nostro ordinamento di un quarto tipo di firma elettronica. Quattro firme elettroniche in un Paese di analfabeti informatici è, davvero, un primato del quale andare fieri.
Battute a parte, basta prendere in mano la Gazzetta Ufficiale della Repubblica per capire che il ministro Brunetta predica bene ma razzola male. Ecco l’avvertenza che campeggia, in rosso, sul frontespizio della Gazzetta: “Al fine di ottimizzare la procedura per l’inserimento degli atti nella Gazzetta Ufficiale telematica, le Amministrazioni sono pregate di inviare contestualmente e parallelamente alla trasmissione su carta come da norma, anche copia telematica dei medesimi (in formato word) al seguente indirizzo di posta elettronica: gazzettaufficiale@giustizia.it, curando che nella nota cartacea di trasmissione siano chiaramente riportati gli estremi dell’invio telematico (mittente, oggetto e data)”. Non so come funzionasse l’amministrazione novecentesca ma è difficile credere che fosse molto più arretrata e primitiva dell’attuale.
Il Consiglio dei Ministri del 1° marzo approva il primo schema del c.d. decreto Romani, il provvedimento normativo al quale va certamente riconosciuto l’oscar come peggior iniziativa di politica dell’innovazione dell’anno. Con la scusa di dare attuazione ad una direttiva dell’Unione Europea, infatti, l’allora viceministro Paolo Romani – frattanto promosso e divenuto ministro dello sviluppo economico e, naturalmente, delle comunicazioni – minaccia di trasformare la Rete in una grande Tv e di imporre a tutti gli operatori, oneri e adempimenti tanto gravosi da risultare sostenibili solo dai più grandi con buona pace della libertà di informazione e d’impresa dei più piccoli.
Aprile è il mese nel quale il governo vara, per la prima volta – tornerà poi a farlo sul finire dell’anno – un piano di incentivi all’acquisto per cucine, elettrodomestici, macchine agricole, ciclomotori e, tra l’altro, al perfezionamento di contratti per la fornitura di connettività Adsl. 20 milioni di euro complessivamente, divisi in “fiches” da 50 euro, in favore di ogni giovane dai 18 ai 30 anni contro gli oltre 200 milioni investiti per incentivare la vendita di cucine, elettrodomestici e trattori. Un approccio davvero moderno.
Il 3 maggio 2010, il ministro dell’Innovazione Renato Brunetta, nel presentare il suo progetto Cec Pac (Comunicazione Elettronica Certificata tra Pubblica Amministrazione e Cittadino), dichiara che “l’idea di ‘regalare’ ad ogni cittadino un indirizzo di Posta Elettronica Certificata è ‘la più grande rivoluzione culturale mai prodotta in questo Paese’ nonché ‘la migliore riforma italiana dal dopoguerra ad oggi’”. Una boutade da Cabaret? Niente affatto, il ministro dell’Innovazione ne è davvero convinto e, infatti, garantisce che nel giro di qualche mese, in Italia, verranno assegnati gratuitamente milioni di indirizzi di posta elettronica certificata ad altrettanti cittadini. Sfortunatamente per lui, ma fortunatamente per il Paese, il tempo gli è nemico e ad oltre sei mesi da allora il ministro è costretto a far rimuovere dal sito attraverso il quale è possibile procedere alla richiesta di assegnazione di un indirizzo Cec Pac il contattore relativo al numero degli indirizzi assegnati perché non c’è verso di fare in modo che superi la barriera delle 300mila unità.
Giugno è il mese caldo del disegno di legge intercettazioni. L’ansia di limitare e circoscrivere la libertà di informazione anche a costo di ridimensionare i poteri dell’autorità giudiziaria si spinge sino a imporre a tutti i gestori di siti informatici un anacronistico ed inattuabile obbligo di rettifica entro 48 ore sotto pena di una sanzione pecuniaria pari a quella riservata agli editori di giornali e tv. L’approvazione del disegno di legge nei termini paventati avrebbe, probabilmente, portato rapidamente all’estinzione di un prezioso canale di informazione 2.0 come quello rappresentato dai contenuti diffusi nella blogosfera. La fortuna del Paese e la debolezza politica del Governo impediscono poi che il disegno di legge arrivi a destinazione ma, in qualsiasi momento, le disposizioni in esso contenute potrebbero essere scongelate e riprendere la loro corsa.
Luglio è il mese – o meglio uno dei mesi in un anno che l’ha vista, di frequente come protagonista – dell’Autorità delle Garanzie nelle Comunicazioni. L’Agcom, infatti, sul finire del mese apre una consultazione pubblica su due schemi di regolamento destinati a disciplinare l’attività di fornitura di servizi media audiovisivi in modalità lineare e non lineare in conformità a quanto disposto dal famigerato decreto Romani. Fuor di giuridichese, si stanno dettando le regole destinate a regolamentare l’universo delle web tv, incluse le numerose esperienze amatoriali e non professionali che lo popolano. 3000 euro di rimborso spese di istruttoria, due autorizzazioni da richiedere per chi voglia rendere disponibili i propri contenuti audiovisivi in modalità streaming e on demand nonché la tenuta di un registro dei contenuti trasmessi. Queste e molte altre le previsioni contenute nelle bozze dei due regolamenti che rischiano di mettere in ginocchio l’erede della vecchia Tv e consegnare ai signori del telecomando di ieri anche la Rete.
Solo una forte mobilitazione via web, l’attenzione dei media e – occorre riconoscerlo – la disponibilità e la sensibilità di alcuni dei Commissari Agcom, consentono di scongiurare la catastrofe. Ancora non sono disponibili i testi definitivi dei due regolamenti, ma a dicembre si apprende che il peggio è passato e che l’Agcom è ritornata sui suoi passi circoscrivendo l’ambito di applicazione dei regolamenti solo a quei soggetti che ottengano, dallo loro attività online, più di 100 mila euro all’anno. Speriamo sia vero.
Sempre a luglio, Corrado Calabrò, presidente dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni si presenta alla IX Commissione trasporti e comunicazioni della Camera dei deputati e racconta, senza ipocrisie né giri di parole, la drammatica situazione dell’Italia digitale. Gli stessi “dati che ci vedono ai primi posti in Europa sul fronte dei prezzi dei servizi tradizionali e della concorrenza infrastrutturata ci classificano sotto la media Ue per diffusione della banda larga… e siamo sotto la media anche per il numero di famiglie connesse a Internet, oltre che per la diffusione degli acquisti online e per il contributo dell’Information Communication Tecnology al prodotto interno” dice Calabrò. Che poi aggiunge: “Il nostro Paese è il fanalino di coda nel commercio e nei servizi elettronici. Le imprese vendono poco sul web; la quota di esportazioni legate all’Ict è pari al 2,2% e relega l’Italia al penultimo posto in Europa. Il futuro presuppone l’ultra banda, le reti di nuova generazione in fibra ottica con capacità di trasmissione sopra i 50 Mbit/s, mentre l’Italia ancora ha difficoltà – dichiara lo stesso Calabrò – a chiudere il piano per il digital divide – che vuol dire, sostanzialmente, far accedere tutti oggi a internet alla potenza della tecnologia di ieri – e non si accinge a fare un passo decisivo verso la fibra”.
Non serve aggiungere altro per raccontare lo stato del Paese, servirebbe, invece, rimboccarsi le maniche e fare dell’altro. Le parole del presidente Calabrò, cadono, tuttavia, nel nulla.
Ad agosto, prima di andare in vacanza, il ministro dell’innovazione, Renato Brunetta, non trova niente di meglio da fare che lanciare l’idea di un Codice per la Governance della Rete e di battezzarlo “Codice Azuni”, dal nome del grande giurista sardo che Napoleone incaricò di predisporre il codice della navigazione del tempo. Sarà che il ministro Brunetta si sente il Napoleone della Rete? Ottima idea per la sceneggiatura di un film o, semplicemente, per un po’ di propaganda pre-vacanziera a basso costo. Ma niente di più. Trenta giorni di consultazione pubblica, durante il mese di agosto su un testo sostanzialmente inesistente, privo di contenuti e con una struttura neppure ipotizzata.
A settembre, il ritorno dalle vacanze è segnato da una bella notizia che, sfortunatamente, viene dalla Spagna e che, invece, in Italia, risuona singolare. I giudici spagnoli chiamati a pronunciarsi contro YouTube in una causa promossa da Telecinco, sostanzialmente gemella di quella intentata da Rti contro lo stesso Big G. nel nostro Paese, hanno deciso in maniera diametralmente opposta. In Spagna, da un intermediario della comunicazione quale è ritenuto YouTube, non si può esigere niente di più che rimuovere gli specifici contenuti segnalati dal titolare dei diritti al quale, tuttavia, spetta individuarli uno ad uno e richiederne la rimozione. In Italia, al contrario, tocca all’intermediario procedere a tale attività ed inibire la pubblicazione di contenuti sui quali insistono altrui diritti d’autore. I meno moderni siamo noi e, sfortunatamente, ormai, non c’è da meravigliarsi.
Ad ottobre il legislatore decide di anticipare un regalo di Natale alla Fieg, la Federazione Italiana Editori di Giornali, lasciandosi tirare per la giacchetta e consentendo agli editori di scrivere un disegno di legge, tagliato su misura per le proprie egoistiche esigenze patrimoniali. La firma, in calce al disegno di legge, la mette, per primo il senatore Butti del PdL, ma presto lo raggiunge una folta pattuglia di amici degli editori. L’incipit della relazione di accompagnamento del disegno ne anticipa in modo esemplare il contenuto: “Il presente disegno di legge intende garantire la tutela della proprietà intellettuale dell’opera editoriale sia nelle forme tradizionali (carta stampata) sia nelle forme digitali (diffusione via internet). Le nuove tecnologie informatiche e di comunicazione, il diverso ruolo in cui si atteggiano le piattaforme che mediano tali contenuti informativi, le peculiarità di alcuni sistemi di distribuzione e di categorizzazione delle notizie (tra cui, in primis, i motori di ricerca) rendono, infatti, necessario ed improrogabile un intervento del legislatore. L’inosservanza dei diritti di utilizzazione economica dell’opera editoriale danneggia le imprese editrici i cui giornali, da prodotto di una complessa e costosa attività produttiva ed intellettuale, diventano oggetto di illecita riproduzione”.
Detto ciò, bastano poche parole per accontentare il mondo della vecchia carta stampata. Eccole qui: è vietato “l’utilizzo o la riproduzione, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, di articoli di attualità pubblicati nelle riviste o nei giornali, allo scopo di trarne profitto in assenza di un apposito accordo tra chi intenda utilizzarli e le associazioni maggiormente rappresentative degli editori.”. Google News è servito ma, soprattutto, sono messi nell’angolo e bloccati centinaia e centinaia di progetti innovativi di indicizzazione e aggregazione delle notizie alle quali giovani italiani di talento stavano lavorando nel rispetto delle regole e dei diritti di tutti. Impossibile andare avanti senza sapere se il disegno di legge arriverà in porto o rimarrà solo una proposta.
A novembre, mentre non si sono ancora placate le polemiche legate al tentativo di imbrigliare l’attività delle web tv in legacci tanto stretti da rischiare di soffocare l’universo informativo che vi ruota attorno, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni torna a far parlare di se. Trapelano, infatti, alcune prime indiscrezioni che prenderanno poi corpo nelle settimane seguenti, relative al lancio da parte dell’Agcom di una consultazione pubblica sullo schema di un nuovo regolamento relativo all’enforcement dei diritti d’autore in Rete. Si tratta, ancora una volta, di un’iniziativa che l’Autorità di Corrado Calabrò è costretta ad assumere in forza di quanto disposto dallo sciagurato decreto Romani.
Lo schema di regolamento rappresenta, probabilmente, uno dei segni più evidenti della deriva della politica dell’innovazione italiana verso una direzione che rischia di trasformare il Paese in un’isola analogica in un mondo digitale. Una disciplina complessa e delicata quale quella del diritto d’autore, infatti, si ritrova ad essere integrata all’esito di un mini-confronto all’interno delle segrete stanze di un’Autorità amministrativa anziché attraverso un ampio dibattito parlamentare come accaduto, negli ultimi mesi, nel resto d’Europa. Questioni legate alla libertà di informazione, alla circolazione dei contenuti digitali ed all’enforcement dei diritti di proprietà intellettuale, vengono ridotte a poco più che tecnicismi, ipotizzando di voler risolvere ogni controversia in materia attraverso procedimenti da esaurirsi in cinque giorni, privando così, pressoché integralmente, i responsabili della pubblicazione di ogni diritto alla difesa. Siamo di fronte a leggi marziali adottate in tempo di pace ed all’istituzione, in seno all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, di un’autentica Corte marziale con potere di vita o di morte su ogni contenuto digitale immesso in rete. E’, forse, il modo peggiore per concludere l’anno anche se, indubbiamente, il più coerente con quanto accaduto nei mesi precedenti.
Dicembre, in Italia e nel resto del mondo, è il mese del ciclone Wikileaks che rimette in discussione antiche e fragili certezze della diplomazia internazionale, legate alla conservazione di segreti di Pulcinella che nell’impero degli atomi garantivano il potere a pochi ma che, nell’era digitale, rischiano di mettere in ginocchio gli uomini più potenti della terra. L’Italia, inutile dirlo, si schiera con i più conservatori e si unisce al coro di quanti, in modo stupido e miope, chiedono la testa di Julian Assange, enigmatico patron di Wikileaks e l’oscuramento definitivo del sito, senza comprendere che il problema è ben più ampio e che in discussione c’è l’attualità e sostenibilità del teorema del rapporto tra informazione, trasparenza e segreto di ieri nel secolo della Rete. E’ innegabile che veder la diplomazia internazionale, incluso il nostro ministro degli Esteri, messa in scacco da qualche milione di bit di informazione in digitale, riequilibra, almeno un po’, il bilancio di un anno che, altrimenti, sarebbe segnato da un drammatico rosso per le libertà, i diritti digitali ed il progresso economico e culturale del nostro Paese.
Il racconto del 2010 non sarebbe completo senza ricordare che nell’ultimo Consiglio dei ministri dell’anno, il governo, dopo oltre cinque anni di inutile ed ingloriosa attività, ha mandato finalmente in pensione, quasi del tutto, l’art. 7 del decreto Pisanu. Dal 1° gennaio, anche in Italia, per collegarsi ad una postazione pubblica wifi non sarà più necessario esibire un documento di identità. Davvero un bel modo per chiudere l’anno anche se, probabilmente, sarebbe stato possibile chiudere, nello stesso modo, uno qualsiasi degli ultimi cinque anni. Il 2011, ormai, è alle porte e non resta che augurarsi che sia diverso dal 2010. Cultura digitale, e-democracy, open gov e trasparenza, libertà di informazione online, e-commerce e competitività sono le parole chiave che dovrebbero esser annotate nell’agenda digitale italiana del prossimo anno. Saremo all’altezza del compito? Auguri Italia!
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