Lula lascia la presidenza e diventa la mina vagante della politica internazionale. Dopo otto anni di governo la popolarità sfiora il 90 per cento. Mai successo nelle Americhe delle democrazie del Nord e fra i peronismi più o meno crudeli del Sud. Promette: “Ci rivediamo nel 2014”, insomma vuol tornare a Brasilia ma il carattere non sopporta cinque anni di niente, allora cosa farà? Segretario del Consiglio di Sicurezza o relegato nell’angolo Fao come vorrebbero gli Stati Uniti per evitare ogni giorno di fare i conti con un mediatore che insegue il recupero dei paesi canaglia; utopista concreto nella tessitura di una fraternità tra vecchi e nuovi padroni dell’economia globale.
Le sue prediche nella campagna elettorale 2002 annunciavano che il mondo era più grande della Banca mondiale e del Fondo Monetario. India, Cina e Brasile potevano rovesciare le gerarchie del Novecento. Sorrisi di compassione, invece sta andando proprio così: mentre le nostre economie ingialliscono, la confraternita del Bric è sempre più verde. Non solo nelle classifiche dei Pil: il dinamismo di una cultura liberata dai dogmi del colonialismo economico allarga il successo alla ricerca, all’educazione, alla dignità sociale.
Il Brasile che lascia Lula non è solo il gigante inerme dello Stato-continente sul quale i grandi interessi hanno esercitato poteri imbarazzanti: governi militari, domini multinazionali e l’attrazione fatale delle aristocrazie locali cresciute nel mito delle potenze del Nord. Lula lascia un paese autonomo anche se la dignità di ogni cittadino non è ancora assicurata, ma il recupero dai secoli dell’abbandono sta volando. E la fiducia attrae capitali che tremano dalle nostre parti. E poi la fortuna dei tre immensi laghi di petrolio scoperti sotto il mare. Per la prima volta i paesi latini si convincono della convenienza della democrazia e l’esempio contagia governi che ancora balbettano tra il sogno dell’indipendenza-dipendente dei fratelli Castro, l’autocrazia di Chávez e il liberismo rococò dei manager cileni.
Otto anni di Lula hanno cambiato il continente e impensierito le alleanze di una Washington con tanti pensieri. Lula non ha solo coordinato uomini nuovi con l’irruenza di un presidente mai intimorito dagli umori non sempre tranquilli degli antichi tutori; ha allargato alla grande politica la mediazione di un metalmeccanico intransigente, sindacalista che non si è arreso alla corruzione difficile da sradicare dopo secoli di colonialismo politico ed economico. Ha spalancato tante porte anche se i programmi “Fame Zero” e “Borsa Famiglia” non stanno consolando tutte le disperazioni e l’Amazzonia resta minacciata dalle ragnatele di una speculazione che è complicato imbavagliare, eppure il rinnovamento sembra irreversibile.
Otto anni dopo anche Lula è cambiato: non più l’agita-popolo che assieme al vescovo Hulmes si legava ai cancelli delle fabbriche negli scioperi contro lo sfruttamento degli operai. Hulmes si è acquietato: fa il cardinale ed è in corsa per diventare Papa, mentre il presidente che lascia sta decidendo come capitalizzare il successo. Ripensa alla sconfitta che ancora brucia: si era battuto per proibire il “nepotismo”, corruzione sopravvissuta ai vicerè portoghesi, ma è stato bocciato perfino dai suoi deputati Pt (Partito dei lavoratori). E i figli dei prefetti fanno ancora i prefetti; figli di magistrati, magistrati, per non parlare dei familismi nelle università e nell’alta burocrazia, colera che avvelena la modernità, non solo il Brasile. La prossima scommessa – assicura – riparte da lì.