C’ho c’ho c’ho c’ho… dè!
Abbiamo fatto l’uovo: un errore grammaticale cristallizzato da anni nei giornali, nei libri (perfino di narrativa), nelle didascalie televisive. È noto che “error communis facit ius” e che nell’”uso… risiede l’arbitrio, il diritto e la norma del nostro idioma”, ma è difficile non provare fastidio quando s’incappa nelle forme errate c’ho, c’hai, c’ha ecc.
Per citare il Serianni, rinomato linguista e professore universitario, accademico della Crusca e dei Lincei: “Non si può scrivere *c’ho (che corrisponderebbe a una pronuncia [‘kO])”. Cioè un’anomala resa grafica della pronuncia palatale di c seguita da h, per giunta attribuendo all’apostrofo un’inconsueta funzione diacritica. Ribadisce il Sabatini, professore universitario e presidente onorario dell’Accademia della Crusca, che l’uso di c’ho sia “decisamente inaccettabile”. Nonostante il De Mauro ne registri l’uso nell’omonimo vocabolario, senza spiegare che si tratti invece di un abuso.
Che fare dunque?
Evitare di fare l’uovo con la forma c’ho, c’ho, c’ho, c’ho… Ma evitare anche c’ha, c’hanno, c’abbiamo, c’avemo, c’avete, c’avevo ecc. Se si vuole riprodurre il parlato, è possibile usare ciò, ciài, cià, come ad esempio ha fatto Gadda.
In ambiti più elevati, ci si può avvalere della forma cj ho, come spiega l’Accademia della Crusca: “L’impiego della lettera j con funzione diacritica è sì anomalo, ma ha i pregi di non ingenerare equivoci e di non apparire ingombrante oltre misura”.
Oppure si può usare la grafia c(i) ho che, per quanto artificiosa, trascrive esattamente il parlato.
I “gallinismi” non paiono dunque necessari, specie a chi intende fare il mestiere di scrivere. D’altronde, come notava K.Kraus : “La gente non riesce a capire il tedesco; e in giornalesco io non riesco a dirglielo”.