Prima ha fatto bonificare ufficio e abitazione romana da una società privata, poi ha avvisato il ministro Bobo Maroni. La presenza di microspie nell’ufficio di Umberto Bossi al ministero delle Riforme e nella sua abitazione romana, per alcune settimane è rimasta una notizia esclusiva del senatùr, della sua segretaria e dei due uomini più fidati della scorta. Solo dopo aver fatto bonificare gli ambienti da una società privata il leader del Carroccio ha avvisato il ministro dell’Interno, nonché compagno di partito. Il titolare del Viminale ha fatto eseguire una verifica senza però denunciare l’accaduto. I due ministri avrebbero dovuto invece avvisare la procura di Roma che oggi, infatti, hanno aperto un fascicolo d’inchiesta sulla vicenda. I reati ipotizzati sono quelli previsti dagli articoli 617 e 617 bis del codice penale, quindi “cognizione, interruzione o impedimento illecito di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche” e “installazione di apparecchiature atte ad intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche”.
A rendere noto il ritrovamento delle cimici è stato Bossi, per caso, conversando con i giornalisti ieri notte a Ponte di Legno. E’ stata la segretaria a intuire che ci fosse qualcuno segretamente in ascolto, dato che “troppa gente sapeva quello che avevo detto solo a lei”, ha raccontato Bossi. Dopo alcuni controlli, quindi, “hanno trovato una cimice nel mio ufficio al ministero e diverse nella mia casa di Roma”. Nessuna microspia, invece, nella casa di Varese. “Lì ho fucile da caccia e rivoltella”, ha commentato ironicamente il ministro. Sulle mani che hanno piazzato le microspie, Bossi ha glissato. “Come si fa a sapere chi sono? Sono scemi sì, ma non del tutto”. Ma per quanto appaia sicuro, il senatùr, si è preoccupato di affidare la bonifica a un’azienda privata lontana dai palazzi. Stando a quanto trapela dallo strettissimo entourage leghista, infatti, la società chiamata a intervenire è una vecchia conoscenza del Carroccio, conosciuta nel 1993 quando delle microspie vennero trovate sempre nella casa romana del leader leghista. Anche allora fu Bossi, sempre di notte, a raccontare la vicenda, addossandone la responsabilità a Nicola Mancino, ministro dell’Interno. E anche allora nessuno segnalò l’accaduto alla procura. Omissione aggravata oggi dall’incarico di governo ricoperto sia da Bossi sia da Maroni.
“Se quello raccontato da Bossi è un fatto vero è grave ed è necessario che l’autorità giudiziaria indaghi. Mi dispiace che un ministro in carica non senta il bisogno di denunciare subito un tentativo di intrusione così lesiva ai suoi danni”, dice il leader dell’Italia dei valori, Antonio Di Pietro. E’ “molto grave che un ministro della Repubblica, che dovrebbe dare il buon esempio, non presenti denuncia per una vicenda del genere”. E critica il fatto che Bossi affermi di non aver sporto denuncia perché un’inchiesta non porterebbe a niente: “In questo modo ingenera sfiducia verso la giustizia da parte dei cittadini”. Anche il Partito democratico, per bocca di Ettore Rosato, componente del comitato per la sicurezza della Repubblica, si dice “molto stupito che il ministro leghista non abbia voluto rivolgersi, con la fretta del caso, alle autorità competenti”. Secondo Rosato “questi fatti destano sempre preoccupazione ed è bene che la magistratura abbia aperto un”inchiesta”. E se i Radicali chiedono che la procura apra un fascicolo “in ossequio al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale” anche “a carico dei ministri Bossi e Maroni”, per Pierluigi Mantini dell’Udc i fatti “sono strani e inquietanti a tal punto da far sorgere il dubbio che la cimice possa anche essere una bufala o, peggio, il tarlo di una persecuzione finalizzata alle elezioni anticipate, come in altre occasioni”.
Le microspie, vere o presunte tali, hanno spesso fatto la loro apparizione nella recente storia politica. Una cimice conquistò addirittura obiettivi dei fotografi e telecamere: quella che Silvio Berlusconi, l’11 ottobre 1996, mostra davanti alle tv denunciando di averla rinvenuta nel suo studio in via dell’Anima a Roma. “Una microspia professionale e funzionante”, disse il Cavaliere. “Hanno spiato il cuore dell’opposizione”. Alcuni giornali la ribattezzarono subito “cimicione”, considerate le dimensioni e l’arretratezza tecnologica. Fu Maroni l’unico politico a sollevare dei dubbi sulla veridicità del rinvenimento: “Più che una cimice pare una mozzarella”, disse.
Gli altri parlamentari gridano in coro al complotto. Massimo D’Alema, candidato alla presidenza della bicamerale, assicura la piena solidarietà al Cavaliere. Rocco Buttiglione parla di “uno scandalo non inferiore al Watergate”, mentre Manconi invoca le dimissioni di tutti i vertici dei servizi segreti e Lamberto Dini vede “a rischio le libertà fondamentali”. Ma di fatto le indagini diedero ragione a Maroni. L’epilogo della vicenda è raccontato nel libro Mani Pulite (di Barbacetto, Gomez, Travaglio – editori Riuniti).
“Lo sdegno – si legge nel testo – è insomma unanime e la ritrovata unità del Parlamento nella condanna del ‘cimicione’ contribuisce ad accelerare il passo verso la Bicamerale per le riforme, indicata come la panacea di tutti i mali. Qualche settimana dopo, le indagini della Procura di Roma appureranno che la microspia era un ferrovecchio inservibile da anni, per nulla funzionante. E che, a piazzarla in casa Berlusconi, non era stata una ‘procura deviata’, ma un amico del capo della sicurezza di Berlusconi, incaricato di ‘bonificare’ la residenza romana del Cavaliere. Mestamente archiviata la denuncia del leader forzista, che ipotizzava addirittura i reati di ‘spionaggio politico, violazione di domicilio, intercettazione abusiva, abuso d’ufficio e attentato ai diritti costituzionali del capo dell’opposizione’”.