Succede domenica mattina. Ho appena accompagnato delle persone all’aeroporto di Ciampino. Mentre esco dal parcheggio un vigile mi fa segno di fermarmi. Da una via laterale che porta direttamente alle piste esce un corteo di auto, sono mezzi militari e di rappresentanza, un paio di pullman con le insegne dell’Esercito Italiano. Sono passati due giorni dalla morte di Matteo Miotto. In uno di quei mezzi c’è il corpo del ragazzo appena sbarcato da un C-130 dell’Aeronautica militare. Arriva direttamente da un luogo così remoto nella mia immaginazione che faccio fatica a collegare due mondi tanto lontani, quello di una Roma sorniona e ancora ubriaca dai festeggiamenti del capodanno e quello della provincia di Farah, distretto di Gulistan, ovest dell’Afghanistan, dove questo povero ragazzo è caduto per mano di un cecchino.
È un corteo lento, nella rotonda che precede l’ingresso all’aeroporto di Ciampino ci sono le volanti dei Carabinieri che bloccano il traffico della via Appia. Qua e là affiorano i pensieri, c’è un silenzio grave, sono quasi le undici del mattino e il cielo è velato da qualche nuvola.
Sono profondamente contrario a quella guerra, come a tutte le guerre, sono stato un obiettore di coscienza al servizio militare obbligatorio, sono uno di quelli che rifiutano la violenza e la guerra come strumenti per la soluzione dei conflitti. Ma in questo momento i particolari della mia storia personale si smarriscono nell’altra. Questo ragazzo è morto in quanto individuo, non in quanto rappresentante di un popolo in missione Isaf a tutela dell’Autorità afghana. È morto in quanto persona, uomo, figlio, e come sosteneva Karl Popper, “ogni qualvolta muore un uomo, è un universo intero ad andare distrutto”. È altresì morto come risultato di un atto politico, come tutte le vittime di guerra, soldati o civili che siano. A chiamarli eroi – il caporal maggiore Miotto e gli altri 34 soldati italiani uccisi in Afghanistan – si fa il gioco di chi li manda al massacro, di quelli che dicono che “ritirarsi ora sarebbe un insulto”, dei politici che sfruttano il dolore privato (che giocoforza diventa pubblico) per giustificare le ipocrisie e nascondere gli interessi occulti delle diplomazie internazionali.
Qualche giorno prima di Natale, nei corridoi di un centro commerciale romano, mi sono imbattuto in un banchetto. Dietro al tavolo, quattro ragazzi in mimetica e berretto, due uomini e due donne, sorridevano a tutti e distribuivano opuscoli sulle attività dell’Esercito Italiano. Mi è venuta in mente una scena di un film di Michael Moore in cui una coppia di rappresentanti dell’esercito statunitense vanno in giro per le strade, davanti ai campi da basket e ai cancelli delle scuole, per cercare di convincere giovani americani spiantati, per lo più di colore, ad arruolarsi nei corpi militari.
Qui da noi non siamo ancora arrivati a tanto, ma in tempi di crisi e disoccupazione record, il richiamo ai valori del coraggio e dell’ardimento, ancor più se unito alla promessa di uno stipendio dignitoso, può diventare una forma di seduzione irresistibile per tanti ragazzi chiamati in questo modo ad alimentare la macchina militare. Una “fabbrica degli eroi” a cui, è poco ma sicuro, non si assoggetteranno mai i figli dei potenti, ma – lo sappiamo già – solo quelli della brava gente.