Ancora non sappiamo che aspetto avrà il 2011 per i cittadini britannici, sospesi, almeno per il momento, tra le ottimistiche speranze di ripresa e timori di nuove ricadute. Ma a prescindere dalla piega che prenderà l’economia, al tempo stesso, l’anno appena iniziato sembra portare con sé una prima certezza. Per le banche e i manager quelli a venire saranno ancora mesi pieni di soddisfazione. La notizia, anticipata nei giorni scorsi dalla Bbc, era nell’aria. Così come il carico di implicita indignazione pronta a diffondersi tra le fila dei contribuenti. Anche quest’anno, ha rivelato in anteprima il network britannico, i grandi operatori finanziari del Regno Unito incasseranno bonus miliardari. Alla faccia dell’annunciato impegno del governo per una più equa ridistribuzione dei costi della crisi.
Le cifre dei bonus, a dire il vero, saranno più basse rispetto al passato ma le variazioni non sembrano sufficienti a evidenziare quel cambio di rotta tanto atteso. Barclays distribuirà un po’ meno dei 5-6 miliardi di sterline erogati nei primi nove mesi dello scorso anno, mentre Royal Bank of Scotland (RBS) dovrebbe concedere ai suoi dirigenti premi per circa 1 miliardo (contro gli 1,3 del 2010). I dati, insomma, restano significativi ma a far riflettere, è opportuno ricordarlo, sono soprattutto “i nomi”. Tra tutti proprio quello di RBS, istituto simbolo di quelle politiche post crisi che i liberisti duri e puri hanno riunito, in modo sprezzante, nella definizione di “socialismo finanziario”. Una strategia, quest’ultima, apparsa però ai più come poco “socialista” e molto “finanziaria”.
Tecnicamente fallita all’alba del credit crunch, l’ex banca numero uno d’Europa è stata tenuta in vita dalla generosità forzata dei contribuenti, responsabili, volenti o nolenti, del finanziamento della sua semi nazionalizzazione. Un intervento doloroso ma anche necessario, si diceva, per frenare sul nascere un terremoto capace di mandare sul lastrico l’intera City trascinando sul fondo il Paese e la sua economia reale. Ma anche, ed era questa la speranza più diffusa, un salvataggio condizionato alla revisione delle politiche di gestione dell’istituto, a cominciare da quella prassi dei maxi bonus che incentivavano quelle strategie di breve periodo (leggasi “spericolate”) che la crisi l’avevano alimentata generosamente. E con lo Stato divenuto proprietario di oltre tre quarti del capitale azionario della banca (così come accaduto con Lloyds), le speranze di ritrovarsi con un governo in posizione di forza sembravano decisamente concrete. Un’ipotesi clamorosamente errata.
Un paio d’anni di dibattito e svariati mesi di trattative non hanno scalfito in modo apprezzabile i privilegi delle banche britanniche e dei loro top manager. L’Europa, è vero, ha imposto norme più restrittive (comitati indipendenti chiamati a decidere sulle retribuzioni, limiti percentuali ai bonus calcolati sullo stipendio) ma nel Regno Unito la regolamentazione ultima non è ancora stata approvata. Le grandi banche londinesi hanno dovuto cedere qualcosa ma difficilmente le nuove norme saranno applicati agli istituti più piccoli e ai fondi speculativi. Come se non bastasse la scelta di innalzare le retribuzioni fisse (a volte anche del 40%) ha consentito di ridurre l’ammontare dei bonus senza che gli operatori ne risentissero. Anzi. Un sistema semplice, quest’ultimo, eppure estremamente efficace che ha consentito, e consentirà in futuro, di aggirare tranquillamente le regole.
Ma cosa permette in definitiva alle banche di continuare a operare secondo la vecchia prassi? Non si era detto che lo Stato, ormai azionista attivo del sistema finanziario, avrebbe finalmente avuto il coltello dalla parte del manico? La risposta più esauriente a questi e ad altri dubbi del caso l’ha fornita, meglio forse di chiunque altro, John Purcell, direttore dell’omonima società di headhunting di Londra, la Purcell & C. Gli istituti della City, ha spiegato alla Bbc, non possono permettersi di ridurre in modo significativo le retribuzioni continuando al tempo stesso ad attrarre i migliori manager del Pianeta pronti, in caso di necessità, ad entrare nell’orbita delle più generose banche statunitensi. Un ragionamento logico eppure fortemente ricattatorio di fronte al quale l’esecutivo di David Cameron sembra aver già ceduto. L’argomento “concorrenziale” resta particolarmente forte e la sua capacità di condizionare le scelte del governo segue a ruota annacquando, con ogni probabilità, anche le minacce di una possibile ritorsione dello Stato attraverso l’approvazione di nuove tasse.
Alla fine di dicembre, i rappresentanti delle principali banche del Paese hanno incontrato il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne e il Business Secretary Vince Cable avanzando l’ipotesi di un nuovo piano di prestiti alle imprese britanniche che dovrebbe garantire capitali per 200 miliardi di sterline (70 dei quali destinati allo “small business”). Una concessione che sarebbe certamente apprezzata dal governo a fronte delle probabili ricadute positive sul fronte dell’economia. Ma anche l’elemento chiave di uno scambio che potrebbe sancire la definitiva sconfitta dei progetti di riforma delle regole e delle speranze di cambiamento nella politica retributiva dei giganti della finanza.