E’ da tempo ormai che mi occupo di molte vicende siciliane che riguardano le collusioni del potere ufficiale con la mafia, l’etica pubblica e le deviazioni della politica. Da ormai molto tempo so, e in verità lo sanno un po’ tutti, che esistono magistrati onesti e capaci e magistrati corrotti, collusi, menzogneri o palesemente criminali che infangano il buon nome della magistratura italiana e offendono la dignità dei tanti giudici onesti e ancor più di quelli morti per difendere la nostra libertà.
C’è una città, in Sicilia, dove esiste una vicenda troppo spesso insabbiata. Una città di cui alla nazione viene da decenni offerta una cartolina luridamente falsa, dalla destra e dalla sinistra, che lì costituiscono un unico, miserevole, immondo impasto di potere. Quella città è Catania. Del “Caso Catania”, di questa città a cui la verità è stata strappata con l’uccisione, prima, del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e, poi, del giornalista Pippo Fava, siamo in pochissimi, purtroppo, a parlare.
Così come in pochissimi abbiamo parlato dell’iscrizione nel registro degli indagati per concorso esterno in associazione mafiosa dell’editore catanese Mario Ciancio Sanfilippo, avvenuta con oltre vent’anni di ritardo e probabilmente con la riserva mentale di non farne derivare alcuna conseguenza sul big boss del potere catanese. La stampa censura e la politica, da destra a sinistra passando per il centro, finge di non sapere.
Ieri il Fatto Quotidiano ha pubblicato la foto “fumante” di un magistrato catanese attualmente in predicato di diventare procuratore capo. Si tratta del dott. Giuseppe Gennaro. La foto ritrae il noto magistrato mentre è intento a svagarsi con l’altrettanto noto imprenditore mafioso Carmelo Rizzo, morto ammazzato il 24 febbraio del 1997. Gennaro, che ha sempre negato di conoscere l’esponente di punta del clan Laudani, ha promesso (ma lo farà veramente?) che sporgerà denuncia per l’ennesima volta, come già fece nel 2006 per un articolo di MicroMega a firma di Marco Travaglio e di Giuseppe Giustolisi. Non si è capito se denuncerà anche il fotografo responsabile dello scatto.
Ha aggiunto che, nell’occasione immortalata nella foto, si trovava alla festa della prima comunione del suo vicino di casa, e che non conosceva le due persone con le quali stava amabilmente chiacchierando, parlando con la bocca piena del cibo di cui avevano piene le mani, prelevato da una quarta sedia utilizzata a mò di tavolinetto. La distanza fra Rizzo e Gennaro è di pochi decimetri; il gesticolare delle mani e la postura di Rizzo testimoniano la conversazione. A breve distanza compaiono sedie vuote (a riprova che Gennaro era seduto accanto a Rizzo per scelta e non per occasionale costrizione), mentre alle spalle del gruppo è visibile una compita signora, che sembra proprio la consorte del dottor Gennaro.
Il vicino di casa di Gennaro, dunque: di quale casa? Qui casca l’asino: perché la casa, una decorosissima villetta, fu costruita a San Giovanni La Punta (paesino a monte di Catania) dall’impresa “Di Stefano Costruzioni” riconducibile proprio al mafioso Carmelo Rizzo.
Carmelo Rizzo, l’uomo che aveva costruito, prima della fotografia, la casa di Gennaro, era un imprenditore edile di San Giovanni La Punta. Il 14 ottobre 1996 si sottrasse all’ordinanza di custodia cautelare in carcere nell’ambito dell’operazione “Fico d’india” (decine e decine di arresti che decapitarono il clan Laudani di San Giovanni La Punta). Secondo il provvedimento restrittivo, Rizzo era da lungo tempo affiliato e collegato al capo mafia Alfio Laudani, in qualità di sua diretta espressione imprenditoriale. A dire del pentito Mario Demetrio Basile, Rizzo era stato avvertito dell’esecuzione del blitz già da mesi. Non si sa chi sia stata la talpa.
Durante la latitanza di Rizzo, il Tribunale del Riesame annullò l’ordinanza di custodia cautelare; provvedimento annullato poi a sua volta dalla Corte di Cassazione, che dunque ripristinò l’ordinanza. Fu durante l’attesa per il giudizio di rinvio davanti al Tribunale del Riesame che l’imprenditore mafioso fu assassinato, perché il clan Laudani nutriva il timore che Rizzo potesse pentirsi e quindi trascinare lo stesso clan e tutti i referenti di alto livello in un vortice senza via d’uscita.
Il 3 ottobre 1996, quando con assoluta certezza Rizzo era già a conoscenza dei guai giudiziari in arrivo, anziché preoccuparsi della sua sorte processuale (o forse in alternativa a quello), si impegnò a stampare un depliant pubblicitario della sua impresa. Un depliant parecchio corposo, di 42 pagine. Nella copertina, potendo scegliere fra 31 complessi residenziali di cui si dichiarò artefice, Rizzo decise di raffigurare il complesso Arcidiacono, realizzato nel 1991 in via Montello a San Giovanni La Punta. La grande villa in primo piano è (solo un caso?) quella acquistata da Giuseppe Gennaro. Una combinazione di coincidenze stupefacenti.
Gennaro è come Scajola: non sa chi è Rizzo ma ci si siede a tavola insieme, e non sa come abbia potuto diventare proprietario di una villa (dove tuttora risiede) realizzata dall’impresa della persona che in quella fotografia sembra quasi alitargli sul collo. E forse la copertina di quella brochure non era un altro modo di Rizzo per alitare sul collo di Gennaro? Purtroppo Rizzo fu ucciso prima che potesse raccontare a verbale i crimini a sua conoscenza e le liaisons istituzionali del clan Laudani. Non sappiamo, quindi, cosa avrebbe potuto raccontare alla giustizia. Né sappiamo se mai qualche investigatore gli avrebbe potuto chiedere conto di quella fotografia “fumante” o di quella stravagante e un po’ sconcia brochure pubblicitaria.
Il dottor Gennaro, quando l’acquisto della villa dall’impresa del mafioso assunse dimensione pubblica grazie al coraggio dell’ex presidente del Tribunale dei Minori di Catania Giambattista Scidà, si rivolse al Csm e spiegò (mentendo, ça va sans dire) di aver acquistato quella villa dal proprietario del terreno, tale cavalier Arcidiacono, e non dall’impresa di Rizzo: cosa che in effetti, a leggere il contratto prodotto al Csm, sembrò corrispondere a verità. Tanto più che in quel Csm, a sostenere la purezza del suo amico e collega, c’era il magistrato catanese Giovanni D’Angelo (speriamo che almeno lui fosse in buona fede, raggirato dal suo amico Gennaro). Qualche mese dopo, però, il cavaliere Arcidiacono ammise davanti ai carabinieri di aver firmato il contratto di compravendita con Gennaro solo in qualità di prestanome per conto dell’impresa Di Stefano Costruzioni, titolare del cantiere. Socia della Di Stefano Costruzioni era, manco a dirlo, la moglie di Carmelo Rizzo.
E così si ritorna alla foto. Che venne scattata, si badi bene, poco tempo dopo l’acquisto incriminato. E pensare che poco tempo dopo quella foto, nel 1993, il presidente Scalfaro decretò lo scioglimento per mafia del Comune di San Giovanni La Punta. La principale ragione? Le oscene entrature di Rizzo e del suo clan nell’amministrazione.
La domanda cui il dottor Gennaro – e con lui tutti i magistrati catanesi suoi sostenitori – dovrebbe rispondere, quindi, in merito a questo depliant, è: perchè Rizzo, quando già sa che di lì a poco verrà arrestato, spara sulla copertina di un depliant pubblicitario della sua impresa un complesso in realtà, almeno formalmente, edificato dalla Di Stefano Costruzioni, evidentemente per rivendicare la costruzione della villa del dottor Gennaro?
Ecco, invece di prodursi in scriteriati e perfino autolesionistici comunicati (la cui linearità logica somiglia tanto al percorso di una palla da rugby), il dottor Gennaro, e i tanti suoi pupilli subiti scattati in supporto (a partire dal fido Fonzo), farebbero bene a evitare di brandire a suo vanto l’archiviazione da parte della Procura di Messina omettendo questo: “Che il dottore Gennaro abbia negato di conoscere Rizzo Carmelo, in ciò smentito dalle dichiarazioni di Caruso Carmelo, Gemma Antonino, Villaggio Giuseppe e dall’assegno di c/c dell’importo di £. 9.000.000 emesso nel febbraio 1991 dal magistrato all’ordine di se stesso e poi girato alla ‘G.C. F.lli Rizzo s.n.c.’, non appare significativo sotto il profilo probatorio. Si tratta infatti di una scelta difensiva del dottore Gennaro tesa a prendere le distanze da un malavitoso”.
A voler essere precisi, come ci informa un altro sfortunato supporter gennariano, dal decreto emesso dal Gip di Messina apprendiamo che l’assegno consegnato da Gennaro a Rizzo non era di 9 ma di 18 milioni di lire. Scajola, sproloquiando di non sapere chi avesse emesso gli assegni per pagargli la casa, sembrava aver toccato vette insuperabili. Gennaro, con indomita dedizione, ha scavalcato Scajola: lui non conosceva nemmeno la persona a cui aveva consegnato almeno un assegno. Chissà, forse glielo aveva dato al buio…
Adesso dobbiamo augurarci che il Csm non abbia la spudoratezza di consegnare la guida della Procura di Catania a magistrati come Giuseppe Gennaro o Giovanni Tinebra (l’uomo di fiducia di Berlusconi nominato nel 2001 alla guida del Dap), entrambi candidati e in trepidante attesa di impadronirsi della procura. La città ha bisogno di un procuratore capo estraneo a quel marcio sistema di potere, per avviare una disinfestazione di certe stanze del palazzaccio di piazza Verga. E’ il passaggio decisivo per restituire dignità a Catania e chiedere scusa ai pochi uomini che l’hanno servita con nobiltà e coraggio e che ancora aspettano il nostro grazie.