Silvio Berlusconi torna sotto processo. La Consulta ha deciso: dodici favorevoli e tre contrari. Il legittimo impedimento è incostituzionale. Questa la notizia. Anche se poi nella forma il verdetto della Corte costituzionale boccia il documento del governo solo in parte. Questioni di cavilli. Il premier accetta e replica: “Compromesso accettabile”. Ma ciò che conta è la scelta di ridare potere discrezionale ai giudici sulla impossibilità di presentarsi in aula da parte del premier. La storia si ripete, dunque. Era già successo nel 2008 con il lodo Alfano. Risultato: i processi (tre a Milano: Mediaset, Mediatrade, Caso Mills) possono riprendere. Fino ad ora, infatti, a bloccare le aule era stato un comma delle legge che prevedeva la passiva accettazione dei magistrati del legittimo impedimento. In sostanza i giudici interpretano la norma con una logica di maggior equilibrio tra i due poteri dello Stato. Ecco allora quello che potrà accadere: a fronte di un’udienza fissata con largo anticipo, il premier non potrà più fissare all’improvviso un impegno governativo a ridosso della giornata del processo. In questo caso i giudici avranno discrezionalità di decisione. Ovviamente resta saldo il principio di leale collaborazione tra potere esecutivo e potere giudiziario.

“La legge sul legittimo impedimento nel suo impianto generale è stata riconosciuta valida ed efficace” e questo è “motivo evidente di soddisfazione”, dicono in una nota congiunta gli avvocati di Silvio Berlusconi Niccolò Ghedini e Piero Longo. Il deputato e il senatore Pdl osservano che “nell’intervenire su modalità attuative, la Corte Costituzionale sembra avere equivocato la natura e la effettiva portata di una norma posta a maggior tutela del diritto di difesa e soprattutto della possibilità di esercitare serenamente l’attività di governo, non considerando – aggiungono – la oggettiva impossibilità, come dimostrato dagli atti, di ottenere quella leale collaborazione istituzionale già indicata dalla Corte stessa, con una autorità giudiziaria che ha addirittura disconosciuto legittimità di impedimento ad un Consiglio dei Ministri”.

A questo punto, dopo la decisione della Consulta, bisognerà capire in che modo la corte di Cassazione valuterà il referendum Idv, approvato dalla Consulta, sulla totale cancellazione della legge. L’ufficio centrale per il referendum si era già espresso favorevolmente per quanto riguardava la corretta raccolta delle firme e il vigore della legge sottoposta al quesito di abrogazione. Ma ora sarà chiamato nuovamente a intervenire, per stabilire se la legge così “amputata” è la stessa per l’abrogazione della quale sono state raccolte le firme dal comitato promotore dei referendum organizzato da Italia dei valori di Antonio Di Pietro. In caso di risposta affermativa, vi sarebbe comunque il via libera alle urne.

Ma se la legge si ritenesse di fatto altra rispetto a quella contro la quale sono state raccolte le firme per l’abrogazione, la Cassazione potrebbe decidere di non sottoporla a referendum. Decisione, quest’ultima, che potrebbe causare da parte del comitato promotore, legalmente rappresentato dal costituzionalista Alessandro Pace, la sollevazione di un conflitto davanti alla Corte Costituzionale, se si ritenesse leso in un suo diritto. E la “palla”, così, tornerebbe di nuovo sulla metà campo del Palazzo della Consulta.
Ecco allora il contenuto del verdetto. “La Corte costituzionale – si legge nel comunicato ufficiale – , giudicando delle questioni di legittimità costituzionale relative alla legge n. 51 del  2010, in materia di impedimento a comparire in udienza del  Presidente del Consiglio dei ministri, ha deciso quanto segue: è illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 138 della  Costituzione, l’art. 1, comma 4, relativo all’ipotesi di  impedimento continuativo e attestato dalla Presidenza del  Consiglio dei ministri”. Dopodiché lo snodo che assieme boccia e rende nullo il referendum proposto dall’Idv di Di Pietro e accolto ieri dai giudici. In sostanza la Consulta interpreta “illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 138 della  Cost., l’art. 1, comma 3, la parte in cui non prevede che il  giudice valuti in concreto, a norma dell’art. 420-ter, comma 1,  del codice di procedura penale, l’impedimento addotto”. Quindi concludono: “Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale  relative all’art. 1, comma 1, in quanto tale disposizione venga  interpretata in conformità con l’art. 420-ter, comma 1, del  codice di procedura penale. Sono inammissibili le ulteriori questioni di legittimità  costituzionale, relative alle disposizioni di cui all’art. 1,  commi 2, 5 e 6, e all’art. 2”. In particolare, la Consulta ha bocciato la certificazione di Palazzo Chigi sull’impedimento e l’obbligo per il giudice di rinviare l’udienza fino a sei mesi.

La Consulta ha inoltre fornito una interpretazione del comma 1, ritenendolo legittimo solo se, nell’ambito dell’elenco di attività indicate come impedimento per premier e ministri, il giudice possa valutare l’indifferibilità della concomitanza dell’impegno con l’udienza, nel’ottica di un ragionevole bilanciamento tra esigenze della giurisdizione, esercizio del diritto di difesa e tutela della funzione di governo, oltre che secondo un principio di leale collaborazione tra poteri.

Il comma 4 dell’art 1 della legge, bocciato per irragionevole sproporzione tra diritto di difesa ed esigenze della giurisdizione (art. 3 della Costituzione), prevede nello specifico quanto segue: “Ove la Presidenza del Consiglio dei ministri attesti che l’impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni di cui alla presente legge, il giudice rinvia il processo a udienza successiva al periodo indicato, che non può essere superiore a sei mesi”. Il comma 3, rispetto al quale la Corte sarebbe intervenuta con una pronuncia additiva, prevede che “il giudice, su richiesta di parte, quando ricorrono le ipotesi di cui ai commi precedenti, rinvia il processo ad altra udienza”. Il comma 1, di cui la Consulta ha invece dato una interpretazione conforme a Costituzione, prevede che per premier e ministri, chiamati a comparire in udienza in veste di imputati, costituisce legittimo impedimento “il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti”. A seguire, sempre il primo comma, elenca i riferimenti normativi riguardanti specifiche attività tra le quali, ad esempio, il consiglio dei ministri, la conferenza Stato-Regioni, impegni internazionali etc. Dopo questo elenco minuzioso, il comma 1 prevede che sono oggetto di legittimo impedimento le “relative attività preparatorie e consequenziali, nonché ogni attività comunque coessenziale alla funzioni di governo”.

Il verdetto di oggi è solo una delle tante decisioni in cui la Consulta si è espressa su provvedimenti normativi voluti dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Nel gennaio 2004 i giudici dichiarano l’illegittimità costituzionale del cosiddetto Lodo Schifani, la cui approvazione aveva portato alla sospensione e allo stralcio del processo Sme, con imputato Berlusconi. La valutazione è legata al  fatto che, nel prevedere una sospensione del processo generale il provvedimento creava “un regime differenziato riguardo all’esercizio della giurisdizione”. Si replica nel 2008 con il Lodo Alfano emanato dal governo che ritiene di aver recepito le indicazioni della Corte, ma nell’ottobre 2009 anche lo scudo previsto dal lodo Alfano per le prime quattro cariche (di natura “politica”, con l’esclusione del presidente della Consulta), circoscritto nel tempo e rinunciabile dall’interessato, viene bocciato. La Corte ritiene infatti che per il lodo sia necessaria una legge costituzionale.
Censure dalla Corte costituzionale arrivano anche per la cosidetta ex Cirielli. La legge che ha accorciato i termini di prescrizione per gli incensurati e inasprito le pene per i recidivi viene censurata dalla Consulta più di una volta. Nel 2006, in particolare, viene bocciata una parte significativa della legge (detta anche “salva-Previti”), e cioé la norma transitoria che prevedeva l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione ai processi pendenti in primo grado, escludendo quelli per i quali era stato gia’ aperto il dibattimento.
Dagli archivi salta fuori anche la legge Pecorella. Nel 2007 la Corte la dichiara incostituzionale. la legge prevede la cancellazione dell’inappellabilità in caso di sentenza di proscioglimento. Il centrosinistra attacca definendola una legge ad personam proposta dall’avvocato del premier (il parlamentare di Forza Italia Gaetano Pecorella) per fare uscire definitivamente Berlusconi dal processo Sme. In particolare, i giudici della Consulta dichiarano illegittimo l’art. 1 della legge proprio nella parte in cui esclude che il pm possa proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, per violazione del principio della ’parita’ delle armi’ tra accusa e difesa (art.111 della Costituzione).
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