L’Aula Bunker è parte del nostro immaginario: qui sono stati dibattuti i processi di mafia e i processi alle Brigate Rosse, tra cui il processo Moro, e le immagini di questo luogo inaccessibile, trasmesse dalla televisione, sono entrate nelle nostre case e nella nostra memoria. Il Tribunale lascia ora gli spazi del Foro Italico e la sala, pare, diventerà un museo dello sport, perdendo la sua identità acquisita e quella originaria in un solo colpo. I calchi in cemento delle gabbie, dello spazio che conduce alle celle, del pavimento su cui poggia la sedia del presidente della corte, sono riconducibili al Minimalismo, ovvero a quel momento chiave della storia dell’arte contemporanea in cui viene meno il concetto di unità nella scultura, e tuttavia conservano del monumento la capacità di restituire memoria. Sono impronte dirette di qualcosa che è stato. Il suono, le parole, scandite nello spazio – in altre occasioni riformulate da un interprete dal vivo – viceversa rimettono in circolazione come cosa viva il ricordo, e gli restituiscono presenza e pregnanza. E’ nella necessità di riattivare il racconto, non solo di preservarlo, che mi sembra di poter riscontrare un elemento comune, e di novità, nel lavoro dei giovani artisti italiani oggi. Gianluca e Massimiliano de Serio, nelle sale dello stesso museo, proiettano il film Stanze girato all’interno della Caserma di Via Asti di Torino, dove nel 1946 venne condannato un gruppo di guardie nazionali repubblicane fasciste e che nel 2009 è stato un luogo di accoglienza per rifugiati politici somali. La macchina da presa scende lentamente, piano per piano, fino nei sotterranei dell’edificio. In ogni stanza si ferma per registrare il racconto delle sevizie e delle torture subite dai partigiani, interpretati dalla voce di migranti somali.
Il racconto impercettibilmente scivola dagli atti d’accusa del processo ai ricordi dolorosi dell’Italia coloniale, da Torino all’Etiopia, all’Eritrea, alla Somalia, ricucendo attraverso la voce e il racconto i fili di due storie che fanno parte della storia di questo paese, e a cui è bene dare corpo perché non tornino come rimosso.
In un altro museo della stessa città gli artisti olandesi Liesbeth Bik e Jos van der Pol hanno invece realizzato la copia in scala ridotta della Farnsworth House di Mies van der Rohe, capolavoro dell’architettura modernista, che diventa qui una casa temporanea per le farfalle, necessarie all’impollinazione e messe a rischio da inquinamento e deforestazione. Entrando nel padiglione situato al centro di una sala del MACRO, agli occhi di chi è rimasto fuori, diventiamo come le farfalle: una specie a rischio e che va protetta.
Che abbiano direttamente a che fare con la nostra storia o con la nostra relazione con il mondo, le opere nei due musei sottolineano un aspetto importante del luogo che le ospita: la cura come compito che le istituzioni sono chiamate ad assolvere. Prendersi cura della memoria, perché si ricordi, prendersi cura dell’uomo, nei suoi diversi bisogni, anche per via di metafora.
Ho riletto in questi giorni un breve libro di Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, racconto della formazione intellettuale di un giovane negli anni del dopo guerra, attraverso l’avvicendarsi frenetico degli addetti culturali in una città di provincia. Fare e disfare. Lo ho riletto come talismano perché il lavoro culturale che fanno gli artisti, i curatori, e i musei ha bisogno di continuità.