Saviano, volenti o nolenti, è considerato ormai uno dei più autorevoli e competenti esperti di anti-mafia.
La sua credibilità è tale da essere divenuto un parametro di rifermento persino nei cablogrammi dei vari ambasciatori accreditati in Italia e all’estero, come il fenomeno Wikileaks ha reso evidente. Per questo riceve continui riconoscimenti ed è chiamato a parlare in tutto il mondo.
Appena due giorni fa ha voluto dedicare la sua laurea honoris causa in giurisprudenza ai magistrati del pool di Milano. Un gesto oltremodo significativo, che riconosce la giusta autorevolezza al lavoro di una delle procure più serie ed efficienti d’Italia (che comunque, di nessun riconoscimento ha bisogno, essendo più che evidenti i risultati investigativi e la professionalità che ne contraddistinguono da sempre il lavoro, in barba alla costante delegittimazione da parte di alcuni politici).
Meno comprensibile, invece, mi pare la posizione di chi ha parlato di “orrore”, rispetto a questo gesto di Saviano. Che cosa c’è di tanto negativo nel dedicare una laurea a delle persone che si stimano (i magistrati), tanto più se si condivide (pur in modo assolutamente diverso) una comune battaglia di legalità?
Ma non è questo il punto. Ciò che mi sembra degna di grande attenzione, infatti, è la risposta di Saviano.
A tali ingenerose critiche, lo scrittore ha risposto che orrore è isolare chi combatte la mafia. È una affermazione molto più profonda e piena di implicazioni di quanto possa sembrare e che, personalmente, condivido a pieno.
Lo stesso Saviano, quando si è occupato di ‘ndrangheta e nord Italia (si veda il mio post “Saviano e la criminalità di sistema”) è stato oggetto di aggressioni durissime, che si sono di fatto tradotte in un tentativo di isolamento. Addirittura è stato descritto come la causa della immagine negativa dell’Italia all’estero. Come dire, non parliamo di mafia, altrimenti anche all’estero sanno cosa siamo davvero. E tu (Saviano) sei la causa di questo male (l’immagine negativa). Mi verrebbe da dire: ma una cosa è brutta perché è obiettivamente tale, o perché ha uno specchio che glielo dimostra?
Ma tale isolamento è toccato (e tocca) quotidianamente anche molti magistrati, silenziosi servitori dello Stato, che hanno pagato (e pagano) in tal modo la propria fedeltà allo Stato ed il proprio rigore morale. Un isolamento che non è posto in essere solo dalla politica, ma che, talvolta, è attuato anche all’interno della magistratura stessa. Basti pensare alla carriera di Giovanni Falcone.
La questione è strettamente legata anche a quella della indipendenza interna dei magistrati, argomento conosciuto quasi solo agli addetti ai lavori ed al quale, pare, l’Anm (o una parte di essa) stia finalmente dedicando maggiore attenzione. La complessità del tema mi impone però di non andare oltre, in questa sede, e di limitarmi ad esprimere tutto l’apprezzamento per la risposta di Saviano, rinviando al futuro ulteriori considerazioni.
L’isolamento, quindi, sembra più una tecnica, che una casualità, anche se, in questo, la paura del diverso e la difficoltà ad ammettere i propri stessi limiti di fronte all’atteggiamento ben più onesto di qualcun’altro può giocare in molti un inconscio ruolo nell’allontanare inconsapevolmente il “diverso”, al fine di non confrontarsi (in realtà con se stessi).
A proposito di isolamento, mi viene infine in mente un’altra persona: Patrizia D’Addario.
Presa per pazza, considerata come una mitomane, tacciata di essere una “trappola” creata ad hoc contro il premier, è stata isolata e si è cercato (ed in buona parte riusciti) a non farla apparire in Tv, sui giornali, nei Tg. Le sue affermazioni riguardo ai costumi sessuali del premier sono state fatte passare per pura fantasia. Una invenzione, una montatura.
Un solo dubbio: se due anni fa non l’avessero isolata in quel modo, privandola di una credibilità che – ormai – pare alquanto rivalutata, oggi tutto il mondo potrebbe davvero identificarci con “l’Italia di Ruby e del bunga-bunga”?