Il degrado politico ed etico che Berlusconi ha imposto al Paese, e che il Paese ha allegramente accettato, ci costringe a guardare a un personaggio come Totò Vasasa, che si avvia rassegnato verso la sua cella, come a un esempio positivo che si contrappone al disordinato clamore eversivo del Satrapo del Bunga Bunga e della sua triste corte dei miracoli. Un politico che va in carcere e dice: accetto la condanna e rispetto la magistratura. Cose da pazzi di questi tempi. A questo, persino a questo, ci ha portato Silvio Berlusconi.
La sentenza della Corte di Cassazione, che rende definitiva la sentenza di condanna di Cuffaro incarna fisicamente la fine di un potere personale ma difficilmente segna la fine di un sistema.
La sentenza ci consegna “in giudicato” una fotografia della storia della politica e della mafia degli ultimi anni, dalla quale bisogna ripartire per capire passaggi che ancora rimangono sullo sfondo e che oggi, anche grazie alla definitiva condanna di Cuffaro, diventano realtà processuali, anche per le anime belle della politica e del giornalismo nostrano.
Il primo punto è il rapporto tra la mafia e la politica. Rapporto che, ci dice la Corte suprema, è provato al massimo livello istituzionale nella regione Sicilia. Non un teorema dunque, ma un rapporto organico, uno scambio di favori, una cointeressenza di interessi tra organizzazioni criminali e politica. Difficile credere che tale scambio si limiti solo agli affari siciliani, ai piccioli della sanità. Questo rapporto è consolidato nel tempo, è esso stesso sistema e condiziona il “sistema Paese” ben oltre lo Stretto di Messina.
La sua ascesa al Governo della Sicilia segna l’avvio di quello che sarà chiamato il Cuffarismo. Un sistema perfetto che – oggi lo confermano le sentenze – era dolcemente infiltrato dagli uomini che rappresentavano Provenzano. Il Cuffarismo dunque non è solo sistema clientelare, ma è qualcosa di diverso. E’ un sistema organico alla nuova mafia, a quel nuovo ordine, uscito dalla trattativa con lo Stato; la nuova linea corleonese di Provenzano e delle colombe che ha fatto arrestare Totò Riina e i “pazzi” dell’ala stragista, per chiudere definitivamente una stagione e aprire a nuovi rapporti e a nuove stagioni che stiamo ancora vivendo. Sappiamo chi sono stati i protagonisti, chi ha voluto quel tempo di sangue, sappiamo che gli autori del dramma che si è consumato prima a Palermo e poi a Firenze, Roma e Milano non erano i “pazzi” corleonesi, ma essi di quel dramma sono stati solo i tragici manovali; conosciamo il quadro golpista delle stragi del ’92/’93 e ognuno di noi ne conosce l’utilizzatore finale. Non abbiamo – come diceva Pasolini – le prove. Ma tutti noi, se vogliamo sapere, sappiamo chi sono i colpevoli.
Cuffaro verosimilmente non è stato coinvolto in questi giochi. Cose assai più grandi di lui. Gli mancava – come si dice – il fisico e la testa. Totò doveva garantire alla Regione i mafiosi che – in accordo con nuovi referenti dentro la politica e il Governo della Repubblica – avevano messo fine alle bombe. Doveva garantire che la minna (la mammella – nda) si potesse sempre succhiare. Doveva far si che la mafia potesse investire i suoi denari mal guadagnati ricavandone cospicui utili, nell’unica cosa che rende di più della cocaina e non solleva alcun allarme sociale: la sanità privata convenzionata.
Opere meritorie, dicevano, investimenti di imprenditori lungimiranti che vogliono porre fine all’arretratezza delle strutture sanitarie isolane, che non vogliono più vedere i malati siciliani affrontare i viaggi della speranza verso il nord. Negli studi notarili di Palermo e Catania, si costituivano decine di società all’anno. Nella prima stanza si firmavano gli atti costitutivi davanti al notaio. Nessuno metteva un euro. Poi il notaio andava a bere un caffè e i soci passavano nella stanza adiacente. Qui una persona, alla quale nessuno chiedeva nulla, distribuiva centinaia di migliaia di euro in contanti. Ogni socio riceveva la sua mazzetta che poi depositava nel capitale della società. La stampa siciliana taceva, sui giornali e le televisoni di Ardizzone e Ciancio (anche lui oggi indagato per mafia) si sprecavano elogi. Le nuove strutture venivano inaugurate da politici, prefetti, vescovi, a volte ministri o sottosegretari tutti prodighi di dichiarazioni davanti a microfoni e taccuini servili.
Se volete avere un’idea di come funzionava andate a rivedere “La mafia è bianca”, lo splendido reportage di Stefano Maria Bianchi ed Alberto Nerazzini.
Il privato per prosperare aveva bisogno non solo degli accreditamenti, dei prezzi concordati (e carissimi), ma anche del fatto che la sanità pubblica non funzionasse. Gli ospedali siciliani dovevano continuare a restare dei lazzaretti: i reparti scassati, che scassati dovevano essere in eterno, perchè il loro compito era quello di garantire carriere, mica servizi e salute. Reparti che significano posti e stipendi d’oro per gli amici e i figli degli amici. I medici bravi andavano a Punta Raisi e prendevano un aereo. Oggi li trovi a Londra, ad Amsterdam a New York. A Palermo tornano solo per fare i bagni in estate.
Sprechi, riciclaggio, truffe colossali. Ma non sono questi i peggiori peccati. Quanti morti ha sulla coscienza questo sistema? Quanti innocenti ci hanno rimesso la vita perchè curati da somari, assunti sulla base di una scelta politica o mafiosa? Quanti sono rimasti senza cure perchè non sono sopravvissuti alle liste di attesa?
Adesso Cuffaro va in galera. Bene, a ciscuno il suo, si potrebbe dire, ma non basta. Bisogna chiedersi se il sistema è cambiato. Se la Sicilia è cambiata o se invece è cambiata l’Italia. Se la “linea della palma”, come la chiamava Sciascia, non sia ormai salita sin ben oltre la Padania?
Amaramente dico che c’è poco da festeggiare per un Cuffaro che va in galera. Altri Cuffaro stringono il potere in Sicilia e nel nostro Paese. Hanno facce diverse, colori diversi, ma è il Paese che è consono a questo sistema. Lo specchio amaro di Cetto Laqualunque ci riflette tutti. Cuffaro paga, bene. Ma quanti Cuffaro, quanti Cetto Laqualunque e quanti Berlusconi vivono nelle nostre anime e accecano i nostri cuori?