Non solo l’Europa nella tempesta dei conti statali. Le agenzie di rating declassano il Giappone e presto faranno lo stesso con gli Stati Uniti. Ormai i bilanci sofferenti sono una minaccia estesa a tutte le economie del primo mondo
Stimato docente di Harvard, noto tanto per i suoi studi storici quanto per quelli economici, Niall Ferguson non è certo tipo da eufemismi. Se ne sono accorti, ancora una volta, gli ospiti del forum di Davos che, nella giornata di ieri, hanno potuto ascoltare dalla voce del professore scozzese quello che ha tutta l’aria di essere un monito senza appello. Ricorre a immagini semi apocalittiche, il vecchio Niall, quando evoca il basso medioevo europeo per rappresentare in modo emblematico le disgrazie contabili del Vecchio Continente. E, soprattutto, non esita a far uso di un’allegoria clinica quando, per rendere ancora più evidente il concetto, sceglie di definire la crisi del debito come l’autentica “peste moderna”. Ma il bubbone europeo, e di questo Ferguson è certamente consapevole, rischia ora di trovare omologhi altrettanto infetti ben al di là dei confini continentali. In quella che, alla luce delle ultime notizie, potrebbe trasformarsi in una crisi debitoria globale senza precedenti.
Giappone sempre meno affidabile, Stati Uniti pronti ad imitarlo. Nello spazio di una giornata i timori si sono rincorsi sulla scia dei giudizi della agenzie di rating e del Fondo monetario internazionale. Ieri Standard & Poor’s ha tagliato la sua valutazione sullo stato di salute della finanza nipponica operando il primo downgrade (da “AA” a “AA-“) da quasi nove anni a questa parte. Poche ore più tardi Moody’s ha minacciato di fare qualcosa di simile con gli Stati Uniti, ad oggi ancora premiati con l’ambita tripla A ma in futuro, probabilmente, costretti a ricevere l’outlook negativo. A pesare sui giudizi, condivisi anche dal Fmi, la preoccupante espansione del debito pubblico. In pratica, è questa la conclusione, la prima e la terza economia del mondo si avviano a patire gravi sofferenze di bilancio non troppo diversamente dalla traballante Eurolandia (i cui mercati obbligazionari, per altro, hanno già reagito male alle pessime notizie provenienti dall’estero). Se non è questo il segnale di una crisi “sovrana” globale, davvero poco ci manca.
Quello del Giappone sembra il punto di arrivo di un processo perverso che da anni caratterizza i conti pubblici. In termini relativi, il debito sovrano di Tokyo è il più elevato del mondo. Una montagna di disavanzo da 943 mila miliardi di yen (11 mila miliardi di dollari), equivalenti a oltre il 180% del Pil e frutto di una spirale negativa avviata negli anni ’90. Per far fronte alla recessione lo Stato si impegnò allora a rastrellare liquidità sul fronte del credito per poi riversarla nel mercato sotto forma di stimoli all’economia. I tassi di interesse, nonostante tutto, si sono mantenuti bassi così come l’esposizione straniera, visto che i titoli sovrani di Tokyo, ad oggi, sono quasi interamente in mano alle banche e ai risparmiatori giapponesi. Due caratteristiche decisive che permettono alla valuta locale di mantenersi nell’empireo delle monete di riferimento impedendo al Paese, nonostante un quoziente record, di trasformarsi in un alter ego dello Zimbabwe e della sua iperinflazione.
Ora, la bocciatura di S&P non rappresenta certo l’anticamera del default ma ciò non toglie che Tokyo sia ora costretta a dare per scontata l’apertura di un nuovo e tormentato capitolo finanziario. Il segnale peggiore, in questo senso, lo offre il più elementare confronto di mercato. Quello tra il mondo corporate (il settore privato) e il mercato dei titoli statali. Almeno 13 grandi nomi della borsa giapponese, tra cui Toyota, Canon e NTT Docomo, – segnala Bloomberg – si preparano a vantare un rating migliore di quello sovrano. Il costo di assicurazione dei crediti vantati con lo Stato (84 punti base secondo l’ultima rilevazione, per intenderci 1/10 di quello pagato in Grecia) è già superiore a quello di diverse grandi società nipponiche (66,8 per Toyota, 32,9 per Canon, 29 per Tokyo Gas Ltd), segno che investire nel settore privato è oggi meno rischioso che fare altrettanto nel settore pubblico. Un sorpasso che si verifica di rado e che segna inevitabilmente un brutto salto di qualità nella crisi dei conti. In Europa, guarda caso, il fenomeno si è manifestato la prima volta 11 mesi fa, ovvero all’esplosione del disastro greco. Il seguito, come sappiamo, è storia nota.
Quanto agli Usa, c’è poco da scherzare. La salute contabile dell’era Cinton è ormai un reperto da preistoria finanziaria. Dopo il peggioramento dei conti evidenziatosi nei due mandati repubblicani di inizio secolo, il credit crunch, la stagnazione e il migliaio di miliardi di spesa per il sostegno e il rilancio di Wall Street hanno fatto esplodere il disavanzo. Il rapporto deficit/Pil è passato dall’1% del 2007 all’8,8 di oggi. Il valore del debito scambiato sul mercato (quasi 2/3 del totale) vale oggi 9 mila miliardi contro i 4.340 di tre anni e mezzo or sono. Circa la metà delle obbligazioni a stelle e strisce, oggi, è nelle mani degli investitori stranieri. Cinesi in testa, naturalmente.