Non è una vittoria di tutti, l’arresto di Cuffaro. E’ una vittoria per coloro che, seguendo Falcone e Borsellino, hanno lottato anno dopo anno per la dignità e per il bene di tutti. Ma questa è stata una minoranza, anche se in certi momenti molto forte,.
Per la maggioranza del popolo siciliano, invece, l’arresto di Cuffaro è un giorno di vergogna e – auspicabilmente – di riflessione. Per anni e anni, tradendo il ricordo dei morti e i valori della vecchia Sicilia contadina, abbiamo liberamente votato per un mafioso. Fra tutte le regioni italiane, siamo quella che ha peggio usato la propria libertà e democrazia, appoggiando gli assassini e i trafficanti di droga e chiamando “politica” ciò che era semplicemente vigliaccheria e servilismo.
Da qui bisogna partire, senza mezze parole, se vogliamo tornare – tutti, non solo alcuni – un popolo civile. Abbiamo una storia altissima alle spalle – il movimento contadino, le rivolte, le centinaia di sindacalisti, giudici e giornalisti ammazzati – e una gioventù che, a differenza della classe dirigente, si è dimostrata spessissimo degna di stima. Ripartiamo da queste. Non perdiamo un istante a guardarci indietro, non regaliamo un attimo alla vecchia “politica” cuffariana e lombardiana, di chiunque ci abbia a che fare. “Voi avete svergognato e distrutto la Sicilia. Noi giovani la ricostruiremo”.
Questo impegno a Palermo può contare, oltre che sui militanti civili, su una scuola di giudici al servizio di verità e giustizia da generazioni, presidio vitalissimo di democrazia e libertà. Non a Catania. Qui, nello strapotere di un Sistema contrastato solo dai ragazzi dei movimenti, il Palazzo di giustizia per decenni si è erto solitario e inutile a tutti se non ai potenti. E tuttora è così. Travagliato da scontri interni, riconducibili più che ad ansie di giustizie alle contrastanti ambizioni di poteri superiori, conteso fra screditati esponenti fra cui è impossibile la scelta, esso urgentemente richiede un intervento preciso e duro dell’organo di autogoverno della magistratura, fin qui efficiente e attento altrove ma non sulle faccende catanesi. Venga un buon giudice, venga finalmente un giudice a Catania; deciso d’autorità dal Csm, dato che i concorrenti attuali danno scandalo o sono inadeguati. Catania, coi suoi dolori e i suoi travagli, e i suoi movimenti civili che durano da trent’anni, non merita un po’ di giustizia, non merita almeno questo?
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Che differenza c’è fra obbligare un commerciante a “fare un regalo” minacciandogli il negozio che è il suo posto di lavoro e obbligare un operaio a “fare un regalo” (il lavoro, i diritti, la rinuncia al sindacato) minacciandogli la fabbrica in cui lavora? Ricatti del genere, del resto, nel mondo industriale sono sempre esistiti: ma mai con una tale chiarezza, diciamo così, didascalica e insistita: “Devi pagare il pizzo, e si deve sapere in paese”. “Devi rinunciare al sindacato e lo devono sapere tutti”. Il pizzo, o il ricatto del lavoro, come gesto esemplare, come manifesto. I brigatisti, più colti dei mafiosi ma meno sofisticati di Marchionne, riepilogavano rozzamente: “Colpisci uno per educarne cento”.
Così, due mesi dopo Pomigliano, non c’è fabbrica italiana in cui i lavoratori siano ancora sicuri dei loro diritti: che anzi, dopo le cortesie di rito, sono praticamente spariti dall’agenda politica. Il proprietario industriale di Repubblica: “Ha proprio ragione Marchionne!” ha detto. E subito il giornale liberal s’è adeguato. Così, adesso gli operai sono soli, soli in mezzo alle chiacchiere come i ragazzi antimafiosi del sud.
Che però, in fondo in fondo, soli non sono mai stati del tutto. Hanno avuto, in taluni momenti, la capacità e la fortuna di muoversi insieme con altri, di “fare rete”: la prepotenza e le minacce insegnano a molti la vigliaccheria, questo è vero, ma a molti insegnano anche la buona organizzazione e il coraggio. Così, dallo sciopero operaio di oggi, può benissimo nascere tutta una serie concreta di momenti unitari e civili – fino allo sciopero generale, sindacale e antimafioso – da cui unicamente può sorgere la salvezza della Repubblica e la sconfitta profonda, non gattopardesca, dell’attuale regime. Quando riusciremo a profondamente comprendere, e non solo nei dibattiti ma nelle strade, il legame che esiste fra ingiustizia sociale e potere mafioso, allora avremo già quasi vinto la nostra battaglia.
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Dunque, il lavoro è questo. Difendere i diritti, la Costituzione, la legge e quelli che ora l’incarnano, i nostri magistrati. Difendere la vita quotidiana delle persone “comuni”, di quelli che non vanno nei giornali ma che, nel loro complesso, costituiscono la Nazione. Sfrondare d’ogni sovrastruttura ideologica (ma non politica) questa lotta.
“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”: questo è il nostro programma, e non ci serve altro. Ma per queste poche parole siamo pronti a combattere, senza compromessi. Vedremo chi è disposto a difenderle, e chi vorrà invece confonderle in un abile e vano fumo di parole.
Facciamo rete, tutti insieme. Da soli (giornali e gruppi) siamo deboli. Insieme – ma insieme davvero, senza egoismi e ritrosie – ce la possiamo fare.
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