Negli anni della guerra fredda, eravamo soliti parlare di un paese, il nostro, a “sovranità limitata”. Non avremmo mai potuto mandare i comunisti al governo: a un eventuale ingresso del Pci nella maggioranza di governo si opposero tutti i governi americani del dopoguerra, che fecero di tutto perché la Dc restasse il partito di governo. La stessa stagione del centrosinistra restò incompiuta, e finì presto, così come il povero Mattei. Il Sessantotto portò arie di speranza, ben presto soffocate nel clima autoritario dei primi Settanta, seguito dagli anni di piombo e dalla solidarietà nazionale. Che però condusse direttamente, con buona pace dell’attenzione di Berlinguer per la questione morale, allo sfacelo della prima repubblica. Ecco Tangentopoli e Mani Pulite, e di qui – sembra assurdo a chi ricorda i primi sondaggi per le elezioni del ’94: il Pds largamente in testa con i Progressisti, e Forza Italia al 6% – Berlusconi.
Un paese bloccato, che distrugge ogni speranza di cambiamento. Se cambiamento ha da esserci, è tendenzialmente in peggio. Sembra davvero, oggi, di assistere (come suggeriva Lerner nell’ultimo, incriminato, Infedele) alle 120 pasoliniane giornate di Salò; la vicenda Ruby, quella di un potere che è ormai impermeabile a qualsiasi inibizione, produce in fondo l’ennesima dimostrazione che l’Italia non sa reagire, e che anzi prova un certo gusto nell’anticipare la decadenza e lo sfascio. All’estero si chiedono per quale motivo Berlusconi non si dimetta; qui all’interno ci chiediamo perché non si assiste a una rivolta tunisina o egiziana.
È un paese bloccato, come il suo governo, ormai del tutto delegittimato, e inutile. È sintomatico che il viceministro all’Attuazione del Programma, Santanché, sia in televisione in qualsiasi occasione (anche solo per mostrare il dito medio), e il ministro stesso, Rotondi, sia indistinguibile da una poltrona di Ballarò. Ma proporre una sollevazione su questa base è letteralmente impensabile: gli Italiani – meglio, una larga parte degli Italiani – non ci starebbero. Al fatto che la Minetti si indigni per la scelta di Berlusconi di farla pagare dallo Stato (previo ingresso in Parlamento) anziché utilizzando i suoi fondi personali, l’Italia non sa opporre nulla.
Certo, è difficile assaltare il palazzo d’inverno: il Parlamento è pieno di replicanti. E quello che accade laggiù è a sua volta specchio di ciò che accade quaggiù: nel nostro paese, sembra non esistere più nulla che abbia a che vedere con un’identità politica, e dunque con la democrazia. Ieri l’alternanza era proibita, oggi – con buona pace di Popper e seguaci – non è nemmeno concepita come opzione. Ci resta un’opposizione eterogenea – ma di fronte ai replicanti, anche questo diventa un valore –, sfilacciata, forse incapace di superare l’ostacolo del sonno che avvolge gli Italiani.
Ci restano magistrati onesti come quelli che B., come il Jack Nicholson di Shining, vorrebbe punire. Ci resta l’affermazione del conflitto, di cui gli studenti anti-Gelmini si sono fortunatamente fatti portatori. Ci serve forza e ci serve una dimostrazione di forza, il coraggio di convincerci che quella in atto è per certi versi una guerra civile, di cui però sono consapevoli solo il regime stesso, i suoi replicanti e noi oppositori. A furia di dormire, scopriremo di non avere nemmeno più il letto: meglio star svegli, e possibilmente combattere. Magari dando vita a forme di resistenza non più troppo pacifica al regime – ma perché la sinistra s’impuntò quando, in tempi ormai lontani, lo definivamo così? –; ed è cominciando a immaginarle, che i cittadini ancora dotati di un’identità politica possono promuovere un cambiamento. Avanti con le idee, se ne abbiamo – sono quelle, diceva Keynes, e non gli interessi costituiti, che alla fine vinceranno.