Non è passato poi tanto tempo dall’esplosione della piattaforma Deep Water Horizon di proprietà di Beyond Petrolium e – come del resto per molti altri incidenti simili – il calo di attenzione dei media sul problema diffonde quella strana convinzione che tutto sia risolto.
Dei circa 760 milioni di litri dispersi in mare, invece, solo una piccola parte è stata recuperata attraverso lo skimming superficiale. Un’altra esigua percentuale – scelta avallata dall’emergenza dovuta alla vicinanza con la costa – è stata combusta in mare, separando la parte volatile dai residui più pesanti, finiti successivamente sul fondo del mare.
I milioni di litri di solventi utilizzati, invece, hanno solo complicato la situazione. Sono infatti state immesse in mare sostanze tossiche e teratogene e pertanto molto pericolose per il delicato ecosistema marino della zona. Il Golfo del Messico non è prezioso solo dal punto di vista della biodiversità, ma anche e soprattutto perché è la riserva di pesca in grado di soddisfare il 20% della domanda interna agli Stati Uniti.
Gran parte del petrolio sversato sembra scomparso dai rapporti ufficiali di BP sullo stato della bonifica, ma fortunatamente numerosi studi indipendenti sono stati portati avanti dalle tante organizzazioni impegnate sul posto, con esperti nel campo per valutare i danni all’ecosistema marino. Ne risulta che gran parte del petrolio disperso giace ancora su un’area di oltre 270 km quadrati di fondo marino e nella sabbia dei circa 1800 km di coste della Louisiana colpite dalla marea nera. Alcune spedizioni scientifiche hanno rilevato, sotto lo strato superficiale della sabbia, una componente di greggio che ormai si è amalgamata irrimediabilmente e la cui bonifica appare molto complessa.
A questo petrolio nascosto va aggiunto quello accumulatosi nei cosiddetti oil plumes, ovvero degli agglomerati di composti più densi dell’acqua, che raggiungono anche 20 km di lunghezza, per 6 km di larghezza e uno spessore di 100 metri. Queste “nuvole” di petrolio galleggiano a mezz’acqua fino a circa 1000 metri di profondità, privando il delicato ecosistema marino dell’ossigeno necessario alla sopravvivenza e mettendo in pericolo l’intera catena alimentare. La notizia, confermata anche dal New York Times, lascia intendere che le cifre presentate dalla BP siano ancora frutto di manipolazioni per ridurre l’entità del danno percepito e che, al contrario, il danno reale stia minacciando seriamente la sopravvivenza di quell’ecosistema.
L’amministrazione Obama ha contribuito alla disinformazione, facendo pressione affinché fosse minimizzato il flusso di notizie provenienti dalle zone interessate, avendo a mente il pessimo fallimento di George W Bush durante il disastro dovuto all’uragano Katrina, le cui polemiche non si sono mai spente completamente negli animi degli americani. La Casa Bianca, inoltre, non è ancora intervenuta sulla debole regolamentazione sulla sicurezza degli impianti. Molte piattaforme in alto mare, infatti, fanno affidamento alla loro ubicazione in acque internazionali per registrare gli impianti nel piccolo stato delle Isole Marshall, dalle deboli norme sulle misure di controllo e sicurezza, nonostante di fatto esse siano strettamente connesse agli impianti statunitensi di trattamento e raffinazione.
E pensare che basterebbe che gli Stati Uniti solamente imponessero livelli di consumo del parco auto circolante nel Paese simili a quelli europei, perché la richiesta nazionale di greggio si riducesse di circa 1 miliardo di barili di petrolio all’anno, contribuendo alla possibile chiusura di numerose piattaforme petrolifere o meglio ancora al calo del 90% delle importazioni di greggio dai Paesi del Medio Oriente. La volontà politica, soprattutto a livello internazionale, di regolamentare i mercati secondo i criteri della sostenibilità è la chiave che può aprire le porte di un vero cambiamento nei paradigmi industriali di tutti i settori produttivi, a partire dal reperimento delle materie prime e delle fonti energetiche.
di Ascanio Vitale