Ufficialmente non la vuole (quasi) nessuno, eppure se ne continua a parlare con un’insistenza pressante, esagerata, probabilmente sospetta. Bocciata da Berlusconi così come da Bersani, la tassa patrimoniale torna al centro del dibattito economico e in fondo la cosa non sorprende. Un po’ perché, con le sue (teoricamente) enormi potenzialità risanatrici, evoca una possibile risoluzione al problema reale di un debito pubblico crescente. Un po’, al tempo stesso, perché nella sua aspra severità finisce per far sorgere il sospetto di una svolta contabile piena di amare sorprese. Ovvero un nuovo capitolo di ristrutturazione dei conti che sembra oggi decisamente più “dietro l’angolo” rispetto a qualsiasi apprezzabile prospettiva di crescita.
Nel giorno in cui Silvio Berlusconi lancia un invito alla collaborazione al segretario del Pd Bersani senza, per altro, riuscire a convincere nessuno – “E’ un appello strumentale pensato per distogliere l’attenzione dalle gravissime vicende personali del premier” dichiara Stefano Fassina, responsabile nazionale dell’economia per il Partito Democratico raggiunto telefonicamente in tarda mattinata – riecco agitarsi le acque nel marasma della finanza pubblica nazionale. Fa un certo effetto, occorre dire da subito, osservare il risveglio (per quanto impastato di secondi fini) del governo dopo mesi di paralisi in cui Giulio Tremonti si è cortesemente eclissato e i martellanti attacchi alla magistratura, all’informazione e ai villeggianti monegaschi di Rue Princesse Charlotte hanno scandito quelle stesse aste obbligazionarie che hanno sancito, per chi ancora non l’avesse notato, la triste realtà di un sistema economico in piena crisi. Il debito cresce tanto in termini assoluti quanto in rapporto a un Pil stagnante e il suo costante rifinanziamento tende a costare sempre di più (i tassi accordati nell’ultima collocazione sono i più alti degli ultimi due anni).
In una recente intervista al Corriere della Sera, Pellegrino Capaldo, ordinario di economia aziendale alla Sapienza, ha lanciato la sua controproposta. Una tassazione sulle rendite immobiliari da applicare in varie soluzioni. In pratica si tratterebbe di imporre un’aliquota sulla crescita del valore degli immobili che i proprietari hanno accumulato dal momento dell’acquisto. Un provvedimento che interesserebbe dal 5 al 20% del valore delle case e che potrebbe essere pagato, subito, in 3-4 anni, o a scadenza successiva (quando l’immobile verrà venduto, ad esempio). L’obiettivo, in sostanza, sarebbe quello di trasferire, de facto, circa la metà del debito pubblico – stimato attorno al 25% del valore degli immobili italiani – sulle spalle dei privati dimezzando tanto il disavanzo statale (toccando così la quota obiettivo del Patto di Stabilità, ovvero il 60% del Pil) quanto il deficit (da 80 a 40 miliardi di interessi pagati ogni anno dallo Stato). Ma anche questa proposta non convince i più.
Dalle pagine del suo Chicago Blog, Oscar Giannino parla di “furto ai danni di tutti i cittadini”, un progetto che rischia di “estendere la classe dei più ricchi agli almeno 6 milioni di italiani che hanno uno stock patrimoniale pari ad almeno 100 mila euro: azzerandoglielo o meglio intaccandogli ben sotto la soglia della povertà il reddito disponibile annuale”. Una critica feroce che trova, però, importanti punti di raccordo con il diffuso rifiuto che si è da tempo imposto sul tema nel centrosinistra. Per Stefano Fassina la ristrutturazione dei conti italiani passa da altre strade (“incentivi alla crescita, recupero dell’evasione, veri e propri piani industriali per la pubblica amministrazione”), non certo attraverso un’imposta patrimoniale “iniqua che colpisce in misura sproporzionata anche i redditi medi e quelli bassi”. Un’interpretazione che sarebbe poi quella approvata all’unanimità dal Pd l’8 e 9 ottobre scorso a Varese quando il partito ha redatto il suo piano per la riforma del fisco. Ma il condizionale è ovviamente d’obbligo.
A ricordarlo, implicitamente, è stato sabato scorso l’ex segretario Walter Veltroni dal pulpito torinese del Lingotto. La sua proposta – “istituire per il 10% più ricco della popolazione italiana un contributo straordinario per tre anni per far scendere il debito pubblico all’80 per cento” – crea una certa spaccatura nel partito ma inquadra anche un certo clima di fondo che, secondo alcuni, inizierebbe a diffondersi tra i Tremonti boys. E’ il sentimento colto in questi giorni dal quotidiano Milano Finanza secondo il quale “nelle retrovie dell’esecutivo” qualcuno starebbe “lavorando per mettere a punto una svolta in grado di dimezzare o quasi i 1.770 miliardi di debito pubblico”.
Ammesso che la notizia possa essere confermata, non è detto che l’eventuale maxi stangata abbia la medesima forma ipotizzata dai “patrimonialisti”. Ma non è escluso, in ogni caso, che di fronte a contingenze sempre più pressanti il governo (attuale o successivo) possa optare prima o poi per il temuto binomio lacrime & sangue da far ingoiare ai contribuenti di fronte allo spettro di un’uscita del Paese dall’euro. Piano fiscale estremo o no, teme Fassina, “il governo avendo sovrastimato il recupero dell’evasione dovrà intervenire nuovamente nei prossimi mesi per raggiungere i suoi obiettivi di debito”. E l’avverbio, in questo caso, è del tutto appropriato. La pressione fiscale è cresciuta ancora nell’ultimo anno e le tariffe pubbliche hanno subito gli immancabili aumenti. Tra il 2009 e il 2010, nel frattempo, l’evasione fiscale rilevata è cresciuta del 46%.