Il secondogenito di re Giorgio V, Bertie (Colin Firth), è affetto da balbuzie fin dall’infanzia. Ma negli anni Trenta, in Gran Bretagna e in tutta Europa, la radio e il cinematografo rendono più penosa che mai l’esistenza di un Duca di York senza il dono dell’eloquio. Con l’appoggio della tenace consorte Elizabeth (Helena Bonham Carter nei panni della mitica regina madre), il fratello del designato re Edoardo (Guy Pearce) cercherà perciò e in ogni modo di porre rimedio al difetto. Anche perché il fratello maggiore, cui spetta il trono, non ha né voglia né tempra per succedere al padre. Mentre Bertie avrebbe tutte le carte in regola per essere il monarca. Così, con l’aiuto del “logopedista” Lionel (Geoffrey Rush), in realtà un attore, il Duca di York inizierà a superare, lentamente e con molta analisi, il proprio limite.
Che classe. Il discorso del Re, candidato a 12 nomination all’Oscar (tra cui le principali: film, regia, attori e attrice non protagonista) è un film raffinato e aggraziato. A volte il cinema più tradizionale e “da camera” è sorprendentemente in grado di raccontare, sottotraccia, dinamiche epocali complesse. Come in questo caso o come nel caso – inevitabile tirarlo in ballo – di quel capolavoro che è The Queen di Stephen Frears. Se Frears si concentrava sulla rivoluzione che, per il protocollo della Corona inglese, ha rappresentato la morte di Lady Diana, Il discorso del re racconta lo sfasamento tra essere e rappresentare in un paese che si affaccia sull’abisso della Seconda Guerra Mondiale. Bertie, il balbuziente, desidera governare e ha la stoffa per farlo. Suo fratello no (tanto che abdicherà per sposare la miliardaria Wallis Simpson). Ma qualcosa deve cambiare, perché il giusto ruolo sia affidato alla giusta persona.
Il cambiamento avviene grazie alle sapienti e al contempo bizzarre “lezioni” di Lionel. Uno che proprio con la Corona non c’entra niente e che, anzi, è quanto di più anticonvenzionale esista. Un po’ analista, un po’ fisiatra, ma soprattutto mentore mimetico, Lionel è quanto di meglio possa offrire Londra. Perché è un attore. Ma il valore della finzione, così ben raccontato da Frears nel sopracitato film, svolge qui una funzione totalmente opposta. Se The Queen si apriva con la regina Elisabetta (la figlia, appunto, di Bertie e della regina madre) in posa per un ritratto e si chiudeva con il discorso pronunciato alla nazione dopo la morte della principessa triste (in un gioco in cui la rappresentazione serve a celare l’inafferrabile segreto del potere), ne Il discorso del re la finzione serve a riportare il vero nella propria casella, altrimenti scoperta. La recitazione serve a portare a galla il senso nascosto, come una maieutica di cui ha bisogno un intero paese. Perché Bertie ha una profonda voce interiore ma non riesce ad esprimerla. E per rappresentare il suo popolo deve capire se stesso e tirare fuori ciò che possiede.
La battuta chiave del film è pronunciata dalla piccola Elisabetta (figlia di Bertie e futura regina), in una scena in cui la famiglia sta guardando alla televisione Hitler che arringa la folla. Elisabetta chiede al padre cosa stia dicendo. E lui risponde: “Non lo so, ma lo dice benissimo”. La metamorfosi del capo, la trasformazione di Bertie, è la riconquista di una voce che rappresenti un paese. Bertie, come si sa, divenne poi re con il nome di Giorgio VI, fu un sovrano solido in guerra e amato dagli inglesi. Il film racconta tutto questo con fare elegante e arguto. Diretto con mano solida dal regista (soprattutto televisivo) Tom Hooper, Il discorso del re spicca per le superbe interpretazioni di Colin Firth e del sempre magnifico Geoffrey Rush. Ma agli Oscar (dove parte favorito) dovrà vedersela soprattutto con The social network. Ovvero con la storia del fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg. Due biografie a confronto. Vincerà la consueta raffinatezza britannica o il potente e glaciale film di Fincher? Beh, la classe non sarà acqua ma un fuori classe è un’altra cosa.