Nell’estate del 1988 ero in Irlanda e acquistai nel centro di Dublino un cappotto di tweed, molto serio e molto allegro. Era allegra la stoffa, e una picchiettatura di lana di vari colori che si affacciava nella trama grigia e seria del tweed. Quando me lo vide addosso a Roma, Daniele mi chiese subito da dove venisse. Da Dublino, risposi. Anch’io, fece lui, assai serio e allegro insieme. Allora come oggi mi sembrava impossibile che Daniele Formica potesse morire, o anche solo invecchiare. Forse suggestionato da Dublino (lui era nato in Irlanda a Drogheda da un violinista irish e una cameriera italiana nel ’49) e dalla lettura di entrambi di Joyce e del suo “Ritratto dell’artista da giovane”, per oltre trent’anni ho pensato che uno come lui fosse giovane nel midollo, ben oltre e fuori dall’anagrafe.
L’avevo conosciuto a metà degli anni ’80, quando aveva già alle spalle una certa notorietà fatta soprattutto di tv, di interventi comici in programmi altrui, di sceneggiati televisivi (i genitori di figli degeneri come sono spesso le fiction attuali), di teatro impegnato o andante. Avrebbe poi fatto anche del cinema. Ma quando ci siamo incontrati l’avevo visto a Roma in un piccolo ma glorioso teatrino off di Trastevere: era in scena da tempo e avrebbe continuato a farlo dal 1985 e poi in varie riprese fino al 1997 in un monologo famosissimo, “A luce rosa-X Rated”, grazie al quale per qualche tempo aveva goduto di una popolarità incisiva tra gli addetti ai lavori e ai livori del carnivoro mondo dello spettacolo. E tra il pubblico, che rendeva il teatro per mesi “sold out”, con difficoltà di prenotazione.
Allora gli davano del “Lenny Bruce” italiano sia pure all’impronta, con immediato riferimento al più famoso cabarettista/monologhista americano del genere. Entrambi all’opera (a teatro o in un locale) in solitudine, entrambi con il gusto per la battuta sferzante. Ma Daniele non era Lenny, perché mentre il secondo divorava se stesso grazie alla parola Daniele divorava piuttosto tutti i generi dello spettacolo e della comunicazione con la parola sì, ma soprattutto con la sua dimensione fisica, con la sua gestualità, con il suo essere mimo di se stesso, con la sua antropomorficità. Per chi non abbia avuto la fortuna di vederlo in azione a teatro, comunque la sua vera casa artistica proprio per tali caratteristiche, pensate a un folletto di cui arrivava prima il volto e poi il corpo snodato, un po’ come accadeva al primo Gad Lerner in tv (la differenza ovviamente era tra i generi frequentati, comicità e giornalismo che pure a volte involontariamente si intrecciano eccome, e anche nel fatto che Daniele non aveva padroni da servire… la sua livrea fisica era solo sua…). Oppure immaginatevi un Daniele Luttazzi molto più animalesco e meno dialettico.
Comunque sia, in questo “X-Rated” Formica era formidabile. Un monologo sul sesso che poco meno di trent’anni fa risultava sconvolgente nei contenuti ma gradevole nella forma perché Daniele era sconvolgente nei contenuti e gradevole nella forma sempre e comunque. Se penso alla robaccia del Bunga Bunga di oggi, e ad allora, alla testa e ai sensi in un’emotività superiore di quel testo, quello spettacolo, quell’attore (autore, regista…), mi vengono i brividi. Che precipizio… Toccava, colpiva, schiaffeggiava Daniele da quel piccolo palcoscenico. L’emozione intellettuale, se posso rozzamente esprimermi così mischiando le carte, era formidabile. Le cose fortissime, lui delicatissimo. Una questione di stile.
Allora pensai che fosse destinato a restare giovane, perché “piaceva agli dei”. Pensai anche che prima o poi dopo tanti piccoli “Gran Premi”, quel purosangue scosso, senza fantini, avrebbe vinto la corsa della sua vita e tutti avrebbero detto: beh, ma è Formica, lo conosciamo, lo sapevamo. Adesso che è morto a 61 anni rapito da un tumore fulminante al pancreas, dopo aver disseminato le stagioni successive di piccole belle cose e di un impegno sociale e culturale ovunque gli venisse richiesto, sono costretto a considerare che il mio “campione” dal grande stile non ha vinto nessuna gara importante. Apparentemente. Ne ha vinta una speciale e determinante di cui non rimangono nero su bianco gli annali. In un’epoca di “travestiti” senz’anima è stato se stesso al meglio senza rinnegarsi mai. Conservo e indosso ancora quel cappotto dublinese di tweed, come fosse nuovo, come fosse giovane. Buon viaggio, Daniele.
Tratto dalla rubrica “Indietro Savoia“, notizie.tiscali.it