Chiusa la campagna d’Italia con la scissione in Borsa, l’accordo di Mirafiori e la successiva vittoria nel referendum, Sergio Marchionne si è lanciato a capofitto nella sua personale offensiva americana. Dichiarazioni, interviste, incontri, tv e giornali. Tutto quanto fa audience con un unico scopo: celebrare la rinascita di Chrysler, scampata al fallimento grazie ai prestiti del governo di Barack Obama e ora pronta a tornare a fasti del passato grazie alla cura targata Torino. L’estemporanea uscita di venerdì – “il quartier generale del nuovo gruppo Chrysler Fiat potrebbe essere trasferito a Detroit” – è solo una tappa di questa escalation verbale.
Marchionne, che è un comunicatore di straordinaria abilità, non lascia nulla al caso nei suoi discorsi, nonostante gli eroici sforzi del suo ufficio stampa di far passare le parole pronunciate a San Francisco come una semplice ipotesi (tra le tante) e per di più a lunga scadenza. Insomma, nient’altro che una frase dal sen sfuggita. Non è così, ovviamente. Perchè venerdì scorso il capo del Lingotto si rivolgeva innanzitutto ai suoi interlocutori statunitensi. Attorno alla Chrysler, infatti, si sta giocando una partita di estrema importanza per il futuro della casa automobilistica. Una partita tutta americana che vede Marchionne impegnato contemporaneamente su più tavoli, tutti decisivi.
Vediamo. Già da alcune settimane i vertici di Chrysler hanno intavolato negoziati con le banche per ottenere nuovi prestiti che vadano a sostituire i finanziamenti pubblici americani e canadese. Il gruppo di Detroit ha inoltre chiesto al governo Usa 3 miliardi di contributi per lo sviluppo di modelli ecologici. Poi c’è la questione del ritorno in Borsa, che Marchionne vorrebbe anticipare alla fine di quest’ano o al massimo all’inizio del 2012. Infine nei prossimi mesi entrerà nel vivo anche la trattativa per rinnovare il contratto di lavoro siglato con i sindacati dei lavoratori.
Ecco perché il manager italocanadese si è messo a suonare la grancassa esaltando gli straordinari progressi della sua Chrysler. Per forza: come fare altrimenti per convincere i suoi interlocutori (creditori, investitori, dipendenti) che vale la pena fidarsi del salvatore venuto da Torino e delle sue strategie? Si spiega così l’enfasi sulla rinascita dell’azienda, mostrata pochi giorni fa in occasione del rituale incontro con gli analisti per la presentazione dei conti del 2010. E anche l’annuncio tanto strombazzato sul premio elargito agli operai. Un annuncio che può essere interpretato come un messaggio diretto agli indisciplinati sindacati italiani, ma d’altra parte sembra un incentivo al consenso rivolto alla controparte americana in vista del negoziato per il rinnovo del contratto. Vale lo stesso discorso per i numeri del bilancio 2010 e per le previsioni sui conti dei prossimi mesi.
L’ottimismo è d’obbligo per impressionare i possibili futuri investitori nelle azioni Chrysler in vista del ritorno a Wall Street. Tutto questo anche se gli analisti più attenti, e anche una parte delle stampa americana, non hanno mancato di sottolineare anche alcune incognite che gravano sulla rimonta del gruppo, che per il momento vanta una quota del mercato Usa inferiore a quanto previsto nel piano industriale varato a novembre 2009: il 10 per cento circa contro l’11.
Marchionne però, tira diritto all’insegna dell’ottimismo. E allora alludere al possibile trasferimento del quartier generale da Torino a Detroit può sembrare nient’altro che il tentativo di avvolgere nella bandiera a stelle e strisce un gruppo che si prepara a batter cassa al governo di Washington e alle grandi banche statunitensi. Visto da Detroit, è di gran lunga preferibile che la Fiat diventi americana piuttosto che sia Chrysler a passare sotto il controllo di un’azienda italiana che negli States non gode esattamente di una buona fama.
Bastano poche parole, una frase buttata lì in un discorso più ampio e il gioco è fatto. La Chrysler agli americani e la Fiat pure. Certo c’è il rischio che qualcuno in Italia si preoccupi e chieda spiegazioni, ma la tempesta in un bicchier d’acqua può essere facilmente gestita con qualche dichiarazione conciliante. Così in America resterà ben vivo l’effetto patriottico del primo annuncio. Mentre dalle nostre parti tutto si cheterà. Fino alla prossima sparata.
da Il Fatto Quotidiano del 6 febbraio 2011