Due mesi fa le proteste sui tetti stazionavano stabilmente al top dell’agenda politica. Studenti e ricercatori (uniti nella lotta) erano diventati i personaggi du jour, sostenuti da gente comune (addirittura la mitica Società Civile), invitati nei talk show e blanditi da un andirivieni di politici (persino quelli che poi avrebbero votato spudoratamente a favore della riforma Gelmini). Poi, nel giro di qualche giorno le agitazioni evaporarono, seguendo un destino comune a tutte le altre ondate di proteste studentesche che riesco a ricordarmi. Panettone e regali erano stati trascurati troppo a lungo, quindi sui tetti tornarono gli uccelli, mentre nel dibattito politico si scatenò l’apoteosi delle tette (e di altre parti anatomiche su cui tavernieri, osti e ostellini hanno pieno titolo per discettare).
A rimuginare mestamente sul destino dell’Università rimangono in pochi, privati di quell’attenzione mediatica che cortei e clamori (specie con lacrimogeni, incendi e pestaggi) garantiscono per i warholiani 15 minuti o poco più. Per questo vorrei dare spazio su questo blog alle considerazioni inviatemi da un professore di matematica, Vincenzo Vespri. Anche se non è più di moda, la questione universitaria rimane uno degli snodi fondamentali per il futuro di questo paese (che sia finita nel dimenticatoio in pochi giorni è un segno di quanto sia vicino il baratro). Condivisibili o meno, spero che le parole di Vespri possano contribuire a rivitalizzare l’interesse su ricerca e università almeno di quanti studiano e fanno ricerca. E a ricordare che molti lettori avevano sottoscritto con entusiasmo la proposta di creare una sezione sulle scienze nel Fatto Quotidiano.
“L’Italia non investiva molto in ricerca ed innovazione, ma se vogliamo fare il paragone calcistico si comportava come il Chievo (una dignitosa squadra di provincia ma in serie A). Arriva Luigi Berlinguer e fa una riforma assolutamente demagogica ed ideologica. Si passa da 50.000 circa professori a 62.000, si aprono università ovunque, gli ordinari (che sarebbe il top management) passano da 13.000 (numero già eccessivo) a 22.000 (numero totalmente assurdo). I conti vanno a scatafascio, la qualità di servizio pure (non puoi avere un top manager ogni 2 impiegati, non comanda nulla e non gestisce nulla). La sinistra invece di fare mea culpa, si mette, sotto la scadente direzione di Mussi & Co., ad accusare i professori del disastro.
Risultato: arriva la Gelmini, taglia a tutto spiano (ed è difficile darle torto), non investe un cent (e qui è difficile darle ragione perché l’Università precipiterà in pochi anni da una dignitosa serie A a una deludente C1-C2) e ripete gli argomenti-mantra della sinistra radical-chic (la colpa del disastro non è di riforme idiote e demagogiche ma dei lavoratori, in questo caso i professori, come per Marchionne sono gli operai FIAT).
Io sto vivendo sulla mia pelle questo disastro e avrei voglia di scappare a gambe levate. Questo non è il lavoro che ho scelto; le prospettive sono grigie, per non dire nere; non emergono, per il momento, alternative politiche credibili. Cerco un’alternativa e un obiettivo perché non voglio passare i 20 anni che mi separano dalla pensione a piangermi addosso (come credo faranno la maggior parte dei 60.000 professori universitari italiani, dando cosi’ ragione alla Gelmini che ci tratta da molluschi).
Quindi mi sto guardando in giro per trovare obiettivi ed opportunità che mi restituiscano la voglia di combattere per qualcosa. Voglio combattere, magari morire combattendo, ma non vegetare lamentandomi addosso!”.
Chissà se tra i politici che si arrampicavano sui tetti a dicembre c’è qualcuno che si ricorda dell’esperienza. In vista delle elezioni magari ci potrebbe persino sorprendere e dirci quali idee ha maturato dal contatto con studenti e ricercatori, a quali proposte ha lavorato lontano dai riflettori in queste settimane, cosa intende cambiare della legge Gelmini. Si, dico proprio a voi, Bersani, Di Pietro, Vendola, Granata, Perina, Della Vedova, Moroni….