Da alcuni anni a questa parte, quando un magistrato apre bocca per difendere le ragioni della giustizia, si cerca di zittirlo sostenendo che il suo aprire bocca sarebbe segno di “parzialità” e, dunque, violerebbe il principale dei suoi doveri. E’ certo che questo è solo un espediente intellettualmente disonesto per costringere al silenzio i testimoni più diretti dello scempio che si fa della giustizia.

Il problema, tuttavia, è molto serio. In un sistema istituzionale sano, il giudice adempie i suoi doveri applicando le leggi e tacendo. Ma in un sistema nel quale una parte si impadronisce dello Stato e, invece di servirlo, se ne serve, piegando le leggi ai propri interessi personali e, dunque, pervertendo il sistema alla radice, servire in silenzio non più l’istituzione, ma i suoi “occupanti”, significa adempiere il proprio dovere o rendersi complici della più grave delle eversioni? In un sistema che diventa nel suo insieme servo del potere e non dello Stato, il magistrato che tace non solo non è imparziale, ma è al servizio della più grave e deprecabile delle parzialità e del più grave e deprecabile degli abusi.

Se interrogassimo oggi i ferrovieri che portavano i treni ad Auschwitz, essi ci direbbero certamente che non furono responsabili del genocidio, perché il loro compito e il loro dovere era “solo” condurre i treni. Il contenuto dei quali era sotto la legittima autorità di altri. Se interrogassimo i giuristi che vissero e agirono sotto il Terzo Reich, ci direbbero kelsenianamente di avere dato applicazione a leggi formalmente adottate da autorità legittime. Possiamo onestamente riconoscere fondatezza a queste discolpe? O dobbiamo piuttosto dire che esse sono l’alibi con il quale coprire imperdonabili colpe individuali e collettive?

Nel corso della manifestazione tenutasi a Milano sabato scorso alcuni intellettuali hanno espresso la loro solidarietà alla magistratura italiana. Nell’ambito di un dibattito interno alla magistratura, taluno ha ipotizzato che i magistrati dovrebbero mantenere le distanze da quelle posizioni. Voglio proporvi il testo della risposta data a questo tipo di obiezioni dal mio collega Marco Dell’Utri, giudice del Tribunale di Civitavecchia, che traggo da una mail inviata da Marco alla mailing list dell’Associazione Nazionale Magistrati. Considero le riflessioni di Marco un’analisi lucidissima e veramente preziosa della delicatezza della questione e della gravità del momento.

“Se la solidarietà espressa alla magistratura italiana da intellettuali come Zagrebelsky o Eco (e appare sufficiente almeno “affacciarsi” alla biografia e all’opera dei due, per escluderli dal numero degli intellettuali “organici”) appare, al giudizio dell’osservatore, un esercizio di partigianeria politica, temo ci sia da preoccuparsi davvero. (…) Varrà la pena di riascoltare quegli interventi in modo meno frettoloso, poiché i discorsi pronunciati hanno assunto un respiro di più larga ampiezza.

Piuttosto, condivido la collocazione del discorso sul piano della “legittimazione” separata della politica e della giurisdizione. Legata, la prima, alla “volontà” (la volontà politica della comunità in un determinato momento storico); alla “storia” la seconda (la storia dei fatti, delle idee e della cultura). Ma appunto! Non è a caso che ho cercato di legare il compiacimento che mi ha provocato l’evento di sabato, all’intervento di alcuni (credibili) intellettuali.

Se è vero – come credo – che dietro ogni struttura di potere si nasconde, bene o male, una ben precisa struttura culturale (foucaultianamente, che non c’è potere senza sapere, e viceversa), mi compiaccio che si sia arrivati a comprendere come il gioco politico che si sta giocando oggi in Italia non riguarda (solo) la contesa sulla volontà politica della comunità (chi vincerà le prossime elezioni), ma in primo luogo la riscrittura stessa di una storia di fatti e di idee che hanno fatto quella che fino ad oggi è stata, e non si sa ancora se continuerà ad essere, la “nostra cultura”. Cos’altro è il cosidetto revisionismo storico di cui tanto si parla in questi anni?

Nulla di male, beninteso. Anzi: la battaglia politica e civile è, nel suo strato più profondo, un confronto tra modi di guardare e di concepire le cose del mondo (non commetto abusi linguistici omettendo l’uso del vocabolo “ideologia”). Davvero non si capisce qual è la concezione della sovranità che alimenta l’insofferenza per il controllo di costituzionalità? Occorre tornare alla storia complessa della rivoluzione francese? Al référé legislatif? Occorre ricapitolare la sentenza di Madison contro Marbury? Alla netta e ferma contrarietà del Partito Comunista Italiano all’istituzione della Corte Costituzionale?

Il conflitto portato contro il controllo di costituzionalità (quello che volgarmente è tradotto nel “non possiamo più tollerare che un pm porti una legge davanti ad un consesso di comunisti e farla annullare”) colpisce il sistema giudiziario (che del circuito di quel controllo è l’anima: dall’obbligo dell’interpretazione costituzionalmente compatibile ai meccanismi della rimessione) propriamente sul piano della sua legittimazione culturale. Se non c’è legge che possa essere controllata nella sua “giustizia”; se non esiste concettualmente l’abuso del legislatore; se non esistono diritti o questioni sottratti alla disponibilità delle maggioranze politiche contingenti, quello che cade è l’intero sistema “culturale” su cui è fondata l’attuale configurazione costituzionale della giurisdizione. Quello che è intollerabile è che tutto questo non si sia ancora visto, o, come io credo, che ancora si faccia finta di non vedere. Oggi chi non vede, non può più imputare il fatto all’ambiguità delle cose, ma solo alla propria pigrizia intellettuale.

Torno a dire: è più che legittimo, anzi, doveroso discutere se la decisione collettiva debba fondarsi (tutta) sulla volontà politica o se questa, nella sua espressione concreta, abbia a che fare con una “storia culturale” (che ne qualifica il contesto, arrivando a riformularla o financo a ricusarla).

La Costituzione italiana attuale parla chiaro ed assume una posizione: sta da una “parte”. E da questa “parte” stanno – devono stare – i magistrati italiani. Si tratta di una scelta di campo che, prima ancora d’essere politica (perché è “anche” politica), è “culturale”. Alcuni intellettuali italiani questo oggi hanno riaffermato, ritenendo di condividerne ancora le premesse. E lo hanno fatto proprio mentre questa posizione della Costituzione è oggi posta in discussione e, con essa, la stessa legittimazione culturale della magistratura.

In termini ancora gramsciani, si tratta di discutere se trasformare il giudice da intellettuale tradizionale (quant’altri mai) a intellettuale “organico” alle contingenze maggioranze della politica. Il giudice deve tenersi fuori da questa discussione? Legittimo sostenerlo. Ma non ci sarà da menare scandalo se quest’esasperazione della cultura giuridica formalista – proprio da parte degli stessi magistrati – possa a taluno apparire, oggi (all’alba del XXI secolo), l’ultimo capitolo di un’ennesima trahison des clercs“.

Marco Dell’Utri, giudice del Tribunale di Civitavecchia

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