Come una diga sul punto di straripare, il re di Colin Firth trattiene l’anima sulla lingua, contrae il corpo, frena l’emozione, abbassa lo sguardo, stringe le spalle, strizza le labbra, arrossisce, balbetta, impallidisce e tartaglia, bofonchia, rimane in attesa della prima mossa dell’interlocutore per evitare un’agonia che conosce da quando era bambino. Anche per questo, Il discorso del re va visto in versione originale.
L’avvento dello spettacolo nella politica come centro nodale, una messa in scena diligente, pignola, squisitamente britannica e l’analisi di un personaggio che vorresti abbracciare dal primo minuto: Giorgio VI, sovrano con importanti disordini della parola, padre dell’attuale regina d’Inghilterra, statista discusso, ora più che mai. Ma prima di tutto ciò, il film diretto da Tom Hooper sta nel fattore umano, attoriale.
E’ il corpo di Firth, infatti, a trasformare una pellicola decisamente media in qualcosa di prezioso, quasi in un saggio di recitazione dove si dimostra, battuta su gesto, la differenza tra understatement e overstatement attoriale; due diversi modi di concepire la recitazione e probabilmente il mondo: Colin Firth e Geoffrey Rush, altrettanto protagonista checché ne dicano a Hollywood. Non si tratta del vecchio adagio dell’attore che fa poco e di quello che fa troppo, piuttosto di un match – giocato con la carne, il sangue e le ossa – in grado di connettere due approcci recitativi agli antipodi il cui significato emerge solo dalla reciproca esclusione.
Perché il film più premiato degli ultimi tempi – già pronto a ben giocarsi le dodici nomination agli Oscar in una battaglia impari contro il capolavoro shakespeariano di The Social Network – vive totalmente nei serrati campo/controcampo di Firth/Rush, saltuariamente rotti dalla grazia spontanea della Bonham Carter. Anche la macchietta del Churchill di Timothy Spall, Michael Gambon che fa Giorgio V e Derek Jacobi nei panni dell’arcivescovo confermano quanto l’intero testo appartenga a loro, gli attori.
Sono le performance di questa superlativa squadra di interpreti a rendere vaga la messa in scena di Hooper oppure è il regista che si mette da parte per dar loro il risalto che meritano? La domanda non è capziosa. Solo nel caso in cui avesse scelto consapevolmente un esilio tanto smaccato, infatti, il cineasta meriterebbe la partecipazione ad un agone già vinto di diritto da David Fincher.