di Francesca Romana Ammaturo* Ho 25 anni, faccio il dottorato in sociologia a Londra e mi occupo di diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender: esattamente il tipo di tema di cui piace discutere nel nostro “bel” paese richiamando polpettoni biblici, una visione manichea e punitiva della sessualità, nonché un sacro senso del ridicolo. Mi piacerebbe parlarne per dire quanto umiliante sia diventato esser cittadina di un paese apertamente omofobo, sessista, mediocre e mal governato, ma sono piuttosto altre riflessioni che mi spingono a scrivere.
L’altro giorno ero in palestra, la televisione nella sala attrezzi sintonizzata sul canale della Bbc per bambini. Alla conduttrice della trasmissione, una ragazza giovane e carina, manca un braccio. Sono disabile anche io e la mia prima reazione è “caspita come sono avanti questi inglesi”, partendo dal presupposto che la scelta sia stata fatta senza pietà né compassione verso la presentatrice in questione, ma per merito. Un commento superficiale che però lascia spazio ad una riflessione più profonda che riguarda la dignità di noi donne, la dignità di quella ragazza dal sorriso pulito, il vergognoso onere imposto sui nostri corpi, sulla nostra felicità e sul nostro futuro.
Le squallide vicende di questi giorni, la sfrenata esibizione della mercificazione del corpo fatta, fosse anche nella migliore delle ipotesi, senza “retribuzione” nei palazzi del potere, stride fortemente con quella immagine della Bbc, con quella normalità e bellezza tipica di un mondo imperfetto come il nostro, un mondo in cui la debolezza fa parte della vita e in cui non tutti possono – e soprattutto vogliono – aspirare a fare le miss, letterine e altri vari soprammobili di carne per trasmissioni televisive.
L’esempio di quella ragazza mi ha fatto capire che c’è un modo radicale per ribellarsi, un modo per disfarsi delle etichette e che forse noi, in Italia, assuefatti come siamo dalla continua profanazione mediatica dei corpi delle donne, non riusciamo più a vedere. Le donne spettatrici hanno delegato ad altre l’esercizio della bellezza e si sono fatte esse stesse consumatrici di quei corpi ossessivamente smembrati in televisione sottoforma di dosi quotidiane di tette e culi. Arrendevoli, rassegnate, come se la presunta perfezione rendesse l’estetica superiore alla vita reale fatta anche di trucco sbavato, di capelli in disordine, di vestiti indossati a caso e alle occhiaie per il poco sonno e il troppo lavoro.
Quella ragazza, nella sua semplicità non ostentata, racconta un riscatto indescrivibile, quello di essere donna al di là degli sguardi e al di là della visione perversa che, servendoci degli occhi degli altri, col tempo abbiamo imparato ad avere di noi stesse. Forse voglio restare qui, forse voglio tornare per urlare la mia indignazione, per il momento l’Italia per me non è un paese per giovani e, a quanto pare, neanche per donne.
*Italiana a Londra, dottoranda in Sociologia