La Financial service authority chiede agli istituti del Regno Unito di valutare le loro capacità di risposta di fronte a ipotetiche catastrofi. Una richiesta che non convince le banche. E che riafferma, implicitamente, l’inadeguatezza degli stress test Ue
L’idea, racconta il Wall Street Journal, l’hanno avuta quei menagrami della Financial Service Authority (Fsa), il massimo organo di regolamentazione del settore finanziario britannico. In pratica si tratta di chiedere alla banche di valutare ipotetici scenari catastrofici ipotizzandone l’impatto sul mercato finanziario e sulla contabilità degli stessi istituti. Cosa accadrebbe se il Paese fosse investito da una crisi di disponibilità dei generi alimentari? E se il personale della vostra banca fosse “decimato” da una pandemia d’influenza? Sì, d’accordo, sa tanto di fantascienza (almeno nel primo mondo). Ma voi, nel caso, come vi comportereste? Per gli analisti bancari di sua Maestà le domande sono ormai familiari.
Eppure, nonostante tutto, il malcontento regna sovrano. Per molti operatori la richiesta della Fsa appare inopportuna così come lo “spreco di tempo” che ne deriverebbe. Ma ad alimentare l’insoddisfazione ci sarebbe anche altro. Gli istituti britannici e le filiali locali delle banche straniere, sostiene il Wall Street Journal, temono che la richiesta di test “apocalittici” nasconda in realtà l’imposizione di nuovi requisiti di sicurezza. Ovvero, in estrema sintesi, l’obbligo di un maggiore accantonamento di capitali “primari” e di riserve valutarie. Uno scenario del tutto in linea con le nuove norme imposte dalla Banca dei regolamenti internazionali nel cosiddetto “Basilea III”.
La Fsa non esclude l’introduzione di nuovi requisiti di capitale difendendo l’utilità del test. “Potrà sembrar loro bizzarro ma il punto è che questo (esercizio, ndr) spinge il modello di business al punto del collasso” ha dichiarato al quotidiano Usa una portavoce dell’ente regolamentare britannico lasciando intuire, forse, il vero significato dell’esame. Negli ultimi tre anni la crisi finanziaria ha messo le banche a dura prova costringendole ad affrontare scenari fino a poco tempo prima impensabili imponendo loro, implicitamente, l’obbligo di non escludere nessuna eventualità. Il problema però è che ad oggi nessun esame ha saputo rivelarsi realmente attendibile. Ovvero, per dirla in altre parole, nessuna prova si è dimostrata capace di rassicurare in pieno gli investitori.
Prendete i famosi stress test. Lo scorso anno l’Unione europea li prescrisse ai maggiori istituti del Continente e il risultato fu apparentemente lusinghiero. Eppure, nonostante le diffuse “promozioni” distribuite all’esame qualcuno pensò bene di non fidarsi. Quegli scettici dei gestori di Noster Capital, un fondo speculativo londinese, decisero ad esempio di ignorare le rassicurazioni e di “shortare” allegramente (ovvero scommettere al ribasso) i titoli di cinque grandi istituti europei che avevano passato il test: la britannica Barclays, la spagnola Banco Bilbao Vizcaya Argentaria (Bbva), la svizzera Ubs e le italiane Ubi e Intesa Sanpaolo. Sotto accusa, nell’occasione, la validità di un test che aveva escluso dalla valutazione il conteggio delle perdite sulle obbligazioni governative in deposito. Se queste ultime avessero trovato spazio nella prova, spiegarono allora gli analisti di Citigroup, l’elenco dei respinti si sarebbe allungato a 24 banche (contro le 7 su 91 riconosciute ufficialmente sulla base del test) coinvolgendo, tra gli altri, anche l’italiana Monte dei Paschi.