Ecco Rabbit hole. Film da ricettario. Ingredienti: una pièce teatrale che ha vinto il Pulitzer nel 2007; una diva come la Kidman e un ottimo attore come Aaron Eckhart; metteteci la storia impegnata e dolente di due genitori che hanno perso un figlio di 4 anni e non riescono a fare i conti con questo terribile lutto… e mischiate. Ma per non essere solo melodrammatici, date una spruzzatina citazionistica e qualche spunto suggestivo. Da qui il titolo evocativo che richiama Alice in Wonderland – “rabbit hole” è la tana del coniglio in cui entra Alice – e fa l’occhiolino a quel geniaccio di Lewis Carroll e parlate ogni tanto di “universi paralleli”. Metafora del dolore umano che contemporaneamente stuzzica qualche cognizione fisica.
Ecco, avete tutto. Ma non avrete per forza un buon film. Potreste avere questo film, ad esempio. Rabbit hole. Un “prosone” pallosissimo (speriamo che a teatro fosse meno noioso), una messa in scena del testo che non coinvolge quasi per nulla le potenzialità del cinema. Né nella scrittura, né nella fotografia, né nel montaggio. Forse, a Broadway, il testo di David Lindsay-Abaire (anche sceneggiatore) poteva funzionare. Ma il film di John Cameron-Mitchell, regista assai più esuberante in Shortbus e Hedwig non regala un momento di reale intensità se si esclude la scena in cui la Kidman parla con la madre (Dianne Wiest) che ha, a sua volta, perso un figlio di 30 anni. E che le racconta come ci si sente dopo qualche anno. Ovvero che la perdita di un figlio non si può dimenticare mai. Ma il dolore si allevia e diventa come un piccolo peso sempre presente in una tasca. Ed è giusto che quel peso non sparisca perchè è il modo in cui il figlio resterà sempre con il genitore. Quella scena è l’unica davvero forte di questo film parlato, di per sè non un male (parlato è anche lo splendido Another year di Leigh e tanto grande cinema). Semplicemente le frasi sono banali. E tutto è come deve essere.
L’altro ricettario usato, infatti, sembra un piccolo manuale di psicologia. Ma di quelli elementari. Che prevedono, dopo il lutto, le tensioni e il progressivo allontanamento tra i coniugi, che la casetta linda dove un tempo riecheggiava la gioia diventi un luogo gelido dove ristagna il dolore. E che non può non tener conto delle varie vicissitudini “degli altri”, gli “estranei”. Che, quasi, con quel loro continuare a vivere, infastidiscono la tristezza inconsolabile dei genitori. Bene, lo sapevamo già. E non c’è nulla di straordinario o anche solo interessante nella riproposizione del già noto.
Il “buco nero” che porta in un universo parallelo, un luogo dello spirito che bisogna attraversare per riconquistare la vita, è infatti solo evocato dal titolo, ma non è espresso dal film se non con semplici e quasi ineluttabili scelte. Ok, la casa è silente. Ok, la fotografia è tetra. Ok, la Kidman ha il volto sofferente. Ok, i conflitti vengono spiegati con varie sottotrame. Ok. Ma quanto pare un teorema, questo Rabbit hole! Cosa spicca, in questo film? Nulla. Un film non è una torta. L’ingrediente magico sta nella capacità di amalgamare in maniera unica, di rendere toccante una storia attraverso scelte stilistiche. Una somma di elementi narrativamente lineari non è garanzia di forza emotiva anche se il tema è denso e terribile. Non funziona così.
Annotazione per fanatici: bellezza un tempo leggendaria, Nicole Kidman è sfiorita. La divina, dopo le massicce dosi di botox (che andavano bene solo quando faceva l’ultracorpo in Invasion), ha deciso di smettere. Ma ormai le labbra sono compromesse per sempre e l’effetto canotto, terribile, toglie veridicità alla sofferenza. L’impressione – triste, visto che la nostra, oltre a essere una bellezza abbacinante, è anche un’ottima attrice – è che il grande momento della Kidman (in corsa per gli Oscar ma se la dovrà vedere con il “cigno” Natalie Portman) sia finito per sempre.