Ecco, avete tutto. Ma non avrete per forza un buon film. Potreste avere questo film, ad esempio. Rabbit hole. Un “prosone” pallosissimo (speriamo che a teatro fosse meno noioso), una messa in scena del testo che non coinvolge quasi per nulla le potenzialità del cinema. Né nella scrittura, né nella fotografia, né nel montaggio. Forse, a Broadway, il testo di David Lindsay-Abaire (anche sceneggiatore) poteva funzionare. Ma il film di John Cameron-Mitchell, regista assai più esuberante in Shortbus e Hedwig non regala un momento di reale intensità se si esclude la scena in cui la Kidman parla con la madre (Dianne Wiest) che ha, a sua volta, perso un figlio di 30 anni. E che le racconta come ci si sente dopo qualche anno. Ovvero che la perdita di un figlio non si può dimenticare mai. Ma il dolore si allevia e diventa come un piccolo peso sempre presente in una tasca. Ed è giusto che quel peso non sparisca perchè è il modo in cui il figlio resterà sempre con il genitore. Quella scena è l’unica davvero forte di questo film parlato, di per sè non un male (parlato è anche lo splendido Another year di Leigh e tanto grande cinema). Semplicemente le frasi sono banali. E tutto è come deve essere.
L’altro ricettario usato, infatti, sembra un piccolo manuale di psicologia. Ma di quelli elementari. Che prevedono, dopo il lutto, le tensioni e il progressivo allontanamento tra i coniugi, che la casetta linda dove un tempo riecheggiava la gioia diventi un luogo gelido dove ristagna il dolore. E che non può non tener conto delle varie vicissitudini “degli altri”, gli “estranei”. Che, quasi, con quel loro continuare a vivere, infastidiscono la tristezza inconsolabile dei genitori. Bene, lo sapevamo già. E non c’è nulla di straordinario o anche solo interessante nella riproposizione del già noto.
Il “buco nero” che porta in un universo parallelo, un luogo dello spirito che bisogna attraversare per riconquistare la vita, è infatti solo evocato dal titolo, ma non è espresso dal film se non con semplici e quasi ineluttabili scelte. Ok, la casa è silente. Ok, la fotografia è tetra. Ok, la Kidman ha il volto sofferente. Ok, i conflitti vengono spiegati con varie sottotrame. Ok. Ma quanto pare un teorema, questo Rabbit hole! Cosa spicca, in questo film? Nulla. Un film non è una torta. L’ingrediente magico sta nella capacità di amalgamare in maniera unica, di rendere toccante una storia attraverso scelte stilistiche. Una somma di elementi narrativamente lineari non è garanzia di forza emotiva anche se il tema è denso e terribile. Non funziona così.
Annotazione per fanatici: bellezza un tempo leggendaria, Nicole Kidman è sfiorita. La divina, dopo le massicce dosi di botox (che andavano bene solo quando faceva l’ultracorpo in Invasion), ha deciso di smettere. Ma ormai le labbra sono compromesse per sempre e l’effetto canotto, terribile, toglie veridicità alla sofferenza. L’impressione – triste, visto che la nostra, oltre a essere una bellezza abbacinante, è anche un’ottima attrice – è che il grande momento della Kidman (in corsa per gli Oscar ma se la dovrà vedere con il “cigno” Natalie Portman) sia finito per sempre.