Voglio parlare della persona che ha creduto in me in quanto giovane lavoratrice. Voglio raccontarvi di Gianfranco Funari.
Puntava sui giovani. Basti sapere che gli ultimi tempi, la sua strettissima redazione – una specie di crew che lo seguiva in tutto e per tutto – era composta da me, allora appena trentenne, Andrea di diciannove anni e l’altro Andrea di ventisette. Ovviamente il tutto supportato dalla sua fantastica ultima moglie, Morena, e da quello che definiva il suo “frangiflutti” Marco, che curava i rapporti col mondo “esterno alla crew”.
Funari era un cavallo pazzo, le sue opinioni non erano motivate da interessi politici e questo faceva arrabbiare sia la destra che la sinistra. Era un uomo libero, come dice la targa a lui dedicata in via degli Orti di Alibert in Trastevere a Roma. Eppure era cresciuto, professionalmente parlando, in quel marasma che era e che è la Tv italiana. Incancrenita sui do ut des. Una mosca (con la barba) bianca. Ti prendeva a lavorare se pensava che valessi qualcosa e se sopravvivevi al suo carattere. Incontenibile e istintivo, paterno e allo stesso tempo infantile. Era la prova vivente che le contraddizioni non corrispondono necessariamente a dicotomie.
Quando iniziai a lavorare con lui – arrivavo da Bologna a Milano con la mia valigia di sogni e difficoltà, desideravo il salto da una Tv regionale a una nazionale – non mi guardò né mi rivolse la parola per quattro mesi. Era come se non esistessi per lui. Ma io sentivo che si trattava comunque di una grande occasione per me. Lavoravo dietro le quinte, alacremente, convinta di poter raffinare la mia formazione accanto a lui. Il suo programma Extra Omnes su Odeon Tv era una zona franca, nella quale gli intellettuali si confrontavano apertamente e senza censure, al quale partecipava spesso Travaglio ancora non sdoganato da Annozero. Io osservavo e cercavo di apprendere.
Quando il programma finì, mandò tutti via. Tranne me. A quel punto iniziò un rapporto di lavoro e amicizia durato fino alla sua morte. Ogni tanto penso: chissà come se la riderebbe se vedesse che fine stanno facendo i tanti che lo hanno fatto soffrire, che gli hanno sbarrato la strada del mondo del lavoro perché era un cane sciolto.
Una volta suonò il campanello di casa Funari. Andai ad aprire. Era un tipo biondo, credevo fosse un venditore porta a porta e mi stavo accingendo a mandarlo via senza troppi giri di parole. Sentii dirmi dall’altra stanza: “Fallo entrare!” Perplessa, assecondai la richiesta. Vidi Gianfranco staccare un assegno di 500 euro e darglielo. L’uomo biondo disse grazie, lasciò un paio di tabloid formato quotidiano sul divano, e se ne andò. Guardai. Era il giornale del movimento Marxista-Leninista. Sorrisi. “Perché?” Chiesi. E Funari: “Non prendono sovvenzioni dallo Stato, sono comunque una voce in più nell’informazione“. Lezione. Non potrò mai dimenticarlo.
Ecco un esempio della libertà di Funari:
di Alessandra Sestito