Ilfattoquotidiano.it intervista Aldo Giannuli, profondo conoscitore delle trame eversive in Italia e già collaboratore della Commissione stragi. Secondo lui il vero colpo di stato si produsse nel 1993 quando l'Italia abbandonò il sistema proporzionale.
La crisi mondiale? In principio era il delirio delle solite cassandre catastrofiste; poi in effetti qualcosa scricchiolava, ma solo per colpa di Al Qaeda e degli speculatori finanziari; quindi era già passata e l’Italia l’aveva superata meglio degli altri; poi però s’incazzano in medio oriente e la crisi ritorna di attualità. Eppure basta leggere “2012: la grande crisi”, l’ultimo libro-inchiesta di Aldo Giannuli, per rendersi conto che le cose non stanno e non sono andate proprio così. Ne abbiamo parlato con l’autore, i cui studi multi-disciplinari hanno affrontato svariati argomenti, dai servizi segreti alla controinformazione, dalla strategia della tensione alle stragi nazifasciste, dal costo del grano alle rivolte in medio oriente. Perché, come vedremo, oggi più che mai un battito d’ali di farfalla in Sudamerica può davvero diventare un uragano in Europa. Dunque, oggi più che mai, occorre non perdere di vista alcun battito d’ali di nessuna farfallina. Non solo ad Arcore, ma anche nel resto del mondo.
Professor Giannuli, con le grandi scadenze che da qui al 2012 rischiano di mandare in frantumi il sistema mondiale dell’economia, cosa può succedere all’Italia?
Di tutto e di più. Il rischio più grosso è indubbiamente se salta l’euro. A quel punto se la scelta ricadrà sui due euro, noi rischiamo davvero la secessione. È un rischio molto vicino, si badi bene. Detto questo, gli scenari sono molti. Anche perché la nostra politica estera schizofrenica, sempre per colpa di Berlusconi, alla lunga si può rivelare un boomerang. L’Italia negli ultimi anni si è alternata tra il ruolo di pasdaran dell’americanismo e quello di maggiore partner di Putin. E l’accordo con Gazpron è lì a dimostrarlo. Ma tenere il piede in due scarpe in un momento di instabilità può essere deleterio.
E per la questione eminentemente politica?
Vuole dire Berlusconi? Be’, Berlusconi in questi ultimi decenni ha in un certo senso tenuto insieme l’Italia. L’ha divisa, di fatto concorrendo a mantenere unita e in vita la sinistra. Ma dopo di lui cosa sarà? Saprà la sinistra andare avanti senza sgretolarsi? E cosa accadrà alla destra, la quale è divisa politicamente e geograficamente? Difficile prevederlo.
Che idea si è fatto di quel che avvenne nel ’93, ossia quando il berlusconismo da subcultura televisiva divenne una realtà politica?
Anche nel ’93, un po’ come oggi, lo scenario internazionale è stato predominante. Con il crollo del bipolarismo s’instaura il pensiero unico, il quale pretende omologazione. Ma la omologazione della nuova globalizzazione conosce un solo dogma: smantellare il sistema dei partiti e soprattutto il welfare state. Questo porta a un collasso e ciò favorisce, come sempre è accaduto in questi casi, la salita al potere degli avventurieri.
Dunque è stato un golpe.
Dobbiamo capirci sui termini. Nella storia d’Italia ci sono stati parecchi tentativi di colpo di stato. Ma se proprio dobbiamo dirla tutta, l’unico veramente riuscito è stato quello di Occhetto e Segni sul referendum del ’93. Liquidando il proporzionale produssero uno scollamento della costituzione, portandola verso un maggioritario spurio. Intendiamoci, non che Occhetto e Segni ne fossero consapevoli; ma siccome non sono delle aquile hanno favorito loro malgrado il golpe. Inoltre, non dimentichiamolo, in quegli anni il neoliberismo spingeva per i cambiamenti, in nome della modernizzazione. Così sia a livello internazionale che a casa nostra si creò un vuoto di rappresentanza. E per gli avventurieri fu un gioco da ragazzi infilarsi nella mischia.
Insomma, maggioritario e Berlusconi riprodussero in Italia un’altra divisione tipo Don Camillo e Peppone.
In un certo senso sì. E questo grazie al populismo, che poi significa imporre sempre un nuovo nemico. E dopo tangentopoli si dovevano trovare dei colpevoli per quel che era accaduto. Fu un’arma che Umberto Bossi non seppe sfruttare appieno e che invece Berlusconi utilizzò come rifugio per l’anti-politica e l’anti-partitocrazia. Tra l’altro con due risultati apparentemente contraddittori: da una parte fornire l’approdo a quel blocco moderato anti-comunista che mai e poi mai avrebbe votato per gli eredi del Pci; dall’altra permettere alla vecchia partitocrazia di riciclarsi.
E le bombe?
Le bombe del ‘93, il black out del ’94, tutto va studiato in base alla rottura di vecchi equilibri. Abbiamo detto che, senza più l’Unione Sovietica, i partiti e il welfare diventano ferri vecchi, dei costi che qualcuno non vuole più sostenere. Ma in Italia questa trasformazione assume anche altri connotati. Innanzi tutto il Sisde viene smantellato e questa è una novità. Poi sono arrestati parecchi funzionari dei servizi, un altro fatto nuovo. Il rischio di non riuscire più a controllare la situazione diviene concreto. A quel punto la mafia teme per la sua incolumità. Perché non avrebbe dovuto battere a suo modo un colpo?
Al fine di trovare nuovi canali di contatto…
Certo, perché a quel punto nessuno si sente più sicuro, gli schemi sono saltati. I Ros dei carabinieri si trovano in mezzo a un guado. Mori e Ciancimino non riescono più a garantire per le rispettive parti. Si voltano indietro, ma dietro non hanno più nessuno. È per questo che la mafia dapprima tiene un profilo basso, diciamo “pacifista”. Vuole capire cosa sta succedendo e così lancia, tramite Ciancimino, l’esca della trattativa. Ma poi il sistema crolla e con esso i vecchi referenti. L’instabilità politica ci mette del suo, impedendo che nuovi contatti si ricreino naturalmente. Non scordiamo che, nel giro di quattro anni, a palazzo Chigi si alternano prima Amato, poi Ciampi, poi Berlusconi, poi Dini; e in mezzo ci sono le bombe. Alla fine Mori porta a casa l’arresto di Totò Riina, di cui probabilmente Bernardo Provenzano sa qualcosa. Le bombe sono insomma un interludio, un riequilibrarsi di poteri; dopodiché ritorna la pax mafiosa.
Però i vecchi corleonesi, Provenzano compreso, vengono arrestati.
Perché la mafia oggi non è più Riina e Provenzano, ma Matteo Messina Denaro. Ma voi ve li immaginate ‘u Cùrtu e Binnu u tratturi che camminano per la City di Londra? Nel nostro tempo le mafie intervengono nelle guerre valutarie, prendono i dollari in America e li mettono nei titoli di stato giapponesi, che valgono di più; oppure investono in commodities, i cui sbalzi di prezzi possono avere effetti sull’offerta di grano, cacao, rame, petrolio, eccetera. E dal momento che oggi gli spazi d’azione sono enormi, la mafia, che dispone di ingenti capitali incontrollati, può mettere in difficoltà uno stato, può far vacillare una moneta. Per questo la nuova Cosa Nostra è Matteo Messina Denaro, che infatti t’aspetteresti di vedere a Londra o a Wall Street, e non Provenzano, che viceversa se ne stava a Corleone. Oggi la mafia è molto meno appariscente, meno evidente, ma gioca molto più in grande: dunque è più pericolosa.
Insomma si è globalizzata, nel senso più finanziario del termine.
La globalizzazione ha cambiato nel profondo anche la mafia, come ha fatto con tutto. Si può dire che dopo il mercato borsistico, dopo quello delle valute e delle materie prime, arriva la mafia. È un quarto incomodo pronto a inserirsi nella guerra per i soldi che si scatenerà nel 2012, quando il mondo si accorgerà che non c’è abbastanza liquidità in circolo per coprire i debiti di tutti. A quel punto penso che le mafie agiranno soprattutto nel mercato valutario. Ma a quel punto sarà la guerra di tutti contro tutti.
Giovanni Arrighi, in Il Lungo XX secolo, ha mostrato come nella storia dell’economia mondiale dopo un periodo trentennale di finanziarizzazione arrivano sempre trent’anni di guerra (la Guerra dei Trent’anni; le guerre napoleoniche; le due guerre mondiali). E dalla fine di Bretton Woods di anni ne sono passati quaranta.
E infatti chi vi dice che la guerra non sia già in atto? Probabilmente un nuovo modo di fare la guerra. Militare, ma anche non. Perché la globalizzazione porta a nuove forme di conflitto che investono l’economia, la società, la finanza; sempre per costringere qualcuno a piegarsi. Magari attraverso un attacco batteriologico, o informatico, o satellitare, o finanziario, o terroristico. L’importante è la forza che hanno queste di essere coercitive. Wikileaks cosa è dopotutto? Tuttavia sarà sempre più difficile sapere chi ci sta dietro. Ma non è detto che i cannoni non tornino a sparare. Per esempio in Africa, dove presumibilmente Cina e America, o chi per loro, compatteranno presto una guerra per il controllo delle risorse.
Intanto in Africa la crisi ha cominciato a riversarsi nelle piazze.
Era prevedibile. Anche perché la crisi non è stata curata. La Fed ha solo allargato i canali di finanziamento, immettendo dollari. Ciò ha prodotto un rincaro di tutte le materie prime, rendendo fragile il sistema. Il signoraggio, poi, esporta sempre inflazione. Così, quando la burrascosa estate russa ha di fatto espulso questo paese dall’esportazione di grano, aumentandone il prezzo, il Medio Oriente più di tutti ne ha subito l’impatto (l’Egitto è il maggiore importatore di grano al mondo, ndr). Pertanto la rivolta è stata una conseguenza naturale. Come l’aumento del prezzo del greggio. Adesso è lecito chiedersi: cosa succederà nei prossimi mesi? Probabilmente, per far fronte alla rivolta, i paesi del Maghreb compreranno grano. Ma proprio nei giorni scorsi anche la Cina si è detta intenzionata ad aumentare le scorte di grano. Mentre la Russia dovrà vendere più gas. Ciò però potrebbe portare a una crisi in Bolivia, influendo sul prezzo del rame. Questa è la globalizzazione. Un gioco di sponda che rischia di avere ricadute dove meno te l’aspetti.
Immanuel Wallerstain ha paragonato la globalizzazione a un’auto senza freni e senza sterzo che accelera di fronte al precipizio.
Possiamo anche dire che la globalizzazione è come un biliardo cui abbiano sostituito le sponde. Se una volta per fare un’ottavina ci voleva una determinata forza, ora ne basta molto meno per vedere la palla carambolare avanti e indietro all’infinito. E non è detto che qualcuno, in futuro, non si prenda una biglia in faccia. Ma la domanda che dobbiamo farci è un’altra. Siamo in grado di governare il gioco? E cosa accadrà adesso? Fino ad oggi ci siamo limitati a cure sintomatologiche, come se la crisi fosse una febbre passeggera. Nessuno si è preoccupato di capire cosa fosse realmente successo. Ecco perché, dopo il pasticcio dei subprime, tutto è tornato come prima: le banche, i bonus ai manager, le ricette economiche. Per questo dico che oggi i nemici dell’economia mondiale sono il dollaro, le banche e i manager. Perché è come se si chiedesse al mondo di pagare i costi di un Impero, quello americano, che però non è più in grado di garantire la stabilità al sistema internazionale. E nel frattempo c’è chi si arricchisce.
Ma perché non si è voluto vedere la crisi (che pure era stata abbondantemente prevista)?
Il problema è l’ideologia… Un pensiero unico che non incontra ostacoli è pericoloso, perché finisce per negare l’evidenza. Forse la vittoria contro l’est sovietico, che pure si meritava di perdere, non gli ha permesso di capire che i problemi non erano risolti. Che di nuovi ne sarebbero arrivati. Ma d’altronde tutti i paradigmi nascono come eresie e muoiono come dogmi. Così il liberalismo.
Ci possiamo ancora salvare?
Certo, ma bisogna tornare alle eresie. E alla politica. Occorre cercare di pensare in maniera trasversale, multidisciplinare. E in questo senso la Storia è per sua natura multidisciplinare. Dunque spetta agli storici questa sorta di missione. Perché la globalizzazione necessita di nuovi strumenti metodologici. Di ridiscutere i paradigmi. Insomma, per uscire dal guado bisogna leggere tutto con nuove lenti, passare dal microscopio al telescopio, capire che ogni effetto non è una somma di cause, ma può essere molto di più e molto di meno. La storia, d’ora in poi, deve imparare a ragionare così.