”Di intese con la mafia non ne so nulla assolutamente, io vivevo nel mio bunker. Sentirmi sospettato non dico di sbagli nel mio ruolo di ministro della Giustizia, che ci possono esser stati, ma dire che io possa aver avuto vicinanza con la mafia, non esiste nemmeno lontanamente e mi offende”. Queste le parole di Giovanni Conso, ministro della Giustizia tra il ’93 e il ’94, ascoltato come testimone al processo di Firenze contro il boss Francesco Tagliavia sulle stragi del ’93.
Conso ha risposto a domande della difesa su come, nel ’93, veniva gestito il regime di carcere duro per i boss mafiosi. Alla domanda del difensore di Tagliavia, Luca Cianferoni, su eventuali “mediatori, presentatori” che potessero aver avvicinato il ministro per caldeggiare la revoca dei decreti del 41 bis, Conso ha replicato: “Non mi risultano”.
Sul 41 bis, ha poi ipotizzato Giovanni Conso, “tra due funzionari una sera a cena può nascere un’intesa”, anche se “lo escluderei”. Sul fatto che gli attentati del’93 abbiano potuto pesare sulla sua attività di ministro della Giustizia, Giovanni Conso ha ribadito: “Non escludo nulla”.
“In quel periodo – ha detto – bisognava smussare, la tensione bolliva in pentola in modo terribile, c’era un omicidio al giorno e i terribili attentati. Poi tutto si è fermato. Sono gli eventi che parlano da soli”.
“Al momento – ha proseguito l’ex ministro dei governi presieduti da Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi – non siamo in grado di dire nulla di sicurissimo, ma col tempo pezzi di verità verranno tirati fuori”.
Conso ha ricordato infine una nota inviatagli dal direttore dell’epoca del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap), Nicolò Amato, in cui nel marzo del ’93 gli suggeriva di revocare il carcere duro: “Ricordo questa nota – ha detto Giovanni Conso – perchè era coerente con uno slogan di Nicolò Amato, cioè ‘il carcere della speranza’. Amato credeva nel carcere che desse ai detenuti motivo di sperare in qualcosa. Questa idea di fondo corrispondeva a quanto in gran parte anche io condividevo”. “Anch’io pensavo che il carcere non dovesse essere una cosa tremenda, che dovesse servire alla rieducazione”, ha concluso. “Il carcere duro aveva aumentato l’astio e il malumore dei detenuti, ma anche tra il personale degli agenti di custodia che operava in condizioni difficili”.
Conso ha anche precisato che nel luglio del ’93 vennero confermati 300 decreti di 41 bis per mafiosi e camorristi, ma che nel novembre del ’93 – dopo la sostituzione di Amato al vertice del Dap – come ministro si occupò direttamente del 41 bis e non prorogò 140 decreti. “Sui capimafia più pericolosi si era deciso di rinnovare il 41 bis, poi quando c’erano da rinnovare i decreti per detenuti meno pericolosi ci fu una reazione istintiva”, ha detto. “Contava la situazione personale e vedere il comportamento tenuto”, ha ricordato ancora l’ex ministro. “Ad alcuni si rinnovava il 41 bis, ad altri no”.
Diversamente da quanto previsto, l’ex direttore del Dap Amato, non ha deposto come teste al processo perché malato. Lo ha comunicato all’apertura dell’udienza odierna il presidente della corte d’assise di Firenze, Nicola Pisano, precisando che Amato ha inviato un certificato medico di 15 giorni di malattia. Amato è un testimone citato dalla difesa dell’unico imputato del processo, il boss Francesco Tagliavia. La sua deposizione è stata rinviata ad una delle prossime udienze.