Il gup di Palermo: "L’imputato è già stato giudicato per gli stessi fatti con sentenza ormai definitiva". L'ex governatore della Sicilia è rinchiuso dallo scorso gennaio nel carcere romano di Rebibbia
L’avvocato Nino Mormino nel suo intervento, ha sostenuto la “totale estraneità” di Totò Cuffaro dall’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo il legale, infatti, gli elementi “sono del tutto insufficienti e furono confutati anche dai pm del ‘processo Talpe’, che affermarono la sussistenza solo dell’aggravante di mafia”. Dopo Mormino, ha parlato l’avvocato Oreste Dominioni che ha trattato la questione del “ne bis in idem”. Dominioni ha affrontato alcune questioni tecniche: la nullità dell’interrogatorio di Massimo Ciancimino a proposito di un “pizzino” in cui si sarebbe parlato di Cuffaro. Il legale ha parlato anche della consulenza depositata al processo Mori sulle carte del figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. A conclusione del suo intervento il Gup Vittorio Anania si è ritirato in camera di consiglio. I pm avevano chiesto la condanna di Cuffaro a 10 anni di reclusione. L’ex governatore siciliano è rinchiuso dallo scorso gennaio nel carcere romano di Rebibbia. Cuffaro non era in aula alla lettura delle sentenza.
I rapporti di Cuffaro con Cosa nostra, l’appoggio elettorale che i boss avrebbero assicurato al potente politico agrigentino, i favori fatti a capimafia del calibro di Giuseppe Guttadauro, informati passo passo delle indagini a loro carico, il sostegno a personaggi politici legati a doppio filo alle cosche e l’aiuto dato al “re Mida” della sanità siciliana Michele Aiello, vicino al padrino di corleone Bernardo Provenzano: c’è tutto questo nell’atto di accusa della Procura di Palermo all’ex senatore siciliano. Anni di malaffare e collusioni sfociati in due dibattimenti: uno, il mese scorso definito in Cassazione con una condanna a 7 anni di carcere per favoreggiamento aggravato alla mafia; l’altro concluso oggi con il proscioglimento perchè già processato per gli stessi fatti, il principio giuridico del ‘ne bis in idem’.
L’indagine da cui i due giudizi nascono, infatti, è la stessa. E comincia con un’attività di intercettazione nella casa in cui Guttadauro, padrino di Brancaccio agli arresti domiciliari, continuava a tenere le redini della cosca, ricevendo candidati, decidendo l’esito di concorsi medici e “lanciando” in politica suoi fedelissimi. L’inchiesta, condotta dai carabinieri, si allarga poco a poco squarciando il velo su una rete di connivenze tra politica, mafia, imprenditoria ed esponenti delle forze dell’ordine. Viene coinvolto Cuffaro che nel 2003 riceve un avviso di garanzia per concorso in associazione mafiosa. Dall’indagine nascono diversi processi a imprenditori, manager della sanità, esponenti delle forze dell’ordine tutti ormai conclusi con sentenze passate in giudicato o in corso di definizione.
Ma la posizione di Cuffaro spacca la Procura. All’originaria accusa di concorso, formulata dai pm Nino Di Matteo e Gaetano Paci, i pm Maurizio de Lucia e Michele Prestipino, titolari della tranche d’inchiesta collegata, nota col nome di ‘talpe alla Dda’, preferiscono quella di favoreggiamento alla mafia. Il sostituto Paci, in dissenso dalla scelta dei colleghi, rimette la delega e lascia l’accusa. Comincia il processo e a dibattimento ormai concluso anche Di Matteo, convinto della necessità di contestare al governatore il concorso in associazione mafiosa, se ne va. Il giudizio per favoreggiamento segue il suo corso e si conclude a gennaio. Contestualmente la Procura – nel frattempo a guidare i pm arriva Francesco Messineo – chiede la riapertura dell’inchiesta per concorso e porta Cuffaro davanti al gup. Oggi il proscioglimento, perché – secondo la valutazione del Gup – Cuffaro è già stato giudicato per lo stesso reato.