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Il Grinta, western parlato dei fratelli Coen

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Mattie Ross (Hailee Steinfeld), 14 anni e una determinazione rara, vuole vendicare il padre ucciso vigliaccamente da un balordo, Tom Chaney, che poi si è dato alla fuga. Per farlo deve ingaggiare un bravo cacciatore di taglie. Marshall Cogburn (Jeff Bridges), fama di spietato tiratore, pare l’uomo che fa al caso suo. Ma la ragazza non lo manda solo: anche lei vuole cavalcare nei territori degli indiani, fino a scovare Chaney. Ricercato anche dal Texas Ranger La Boeuf (Matt Damon), di cui né Mattie né Cogburn si fidano troppo.

“I malvagi fuggono quando nessuno li insegue”. Con questa frase, tratta dal Libro dei Proverbi (ovvero dalla Bibbia) si apre il nuovo grande film dei fratelli Coen. Che sembra contenere il cuore dei loro ultimi, splendidi, lavori. Rivestendoli in apparenza del lindore del western classico. Che però non è classico per niente. Il Grinta è un western parlato, in salsa ebraica, con pochissime azioni e molti dialoghi. Il grinta richiama Non è un paese per vecchi ma, incredibilmente, si lega idealmente a quel capolavoro che è A serious man. Che si apriva con la frase “Accetta con semplicità tutto ciò che ti accade”. Frase che assieme all’altra, fondamentale, “Accetta il mistero” (elegantemente detta da un personaggio secondario) conteneva la morale dell’impalpabile tragedia del protagonista del film, moderno Giobbe.




Mattie Ross, all’inizio de Il Grinta, dice qualcosa di complementare. Ovvero che nella vita nulla è gratis, tutto ha un pezzo (monetario o morale) “eccetto la grazia di Dio”. Ecco, la grazia di Dio è quel quid di misterioso che condiziona, poi, lo sviluppo della nostra esistenza generandone gli eventi cruciali. Che, come in un film, sono le azioni portanti. Il Grinta dei fratelli Coen, più fedele al romanzo di Charles Portis che al film di Hathaway con John Wayne (che i due fratelli di Minneapolis dicono di non aver neppure rivisto), è un film depistante. Perchè, in fondo, era molto più un moderno e crudele western Non è un paese per vecchi che questo film. Dove nella prima parte, i protagonisti sono impegnati in estenuanti contrattazioni. Mercanteggiano su tutto e non esiste accordo che non passi per un lungo negoziare dialettico, di cui Mattie è incontrastata regina. I personaggi trattano sui soldi, cercano di convincere gli altri ad agire secondo i loro desideri, praticano una continua persuasione.

Ma la “grazia di Dio” è nelle premesse e condiziona i risultati. Le premesse sono, in qualche misura, le “doti” dei protagonisti. E in particolare quelle di Mattie (che ricorda tanto la Marge di Fargo): una ragazzina cocciuta, sveglia, che ha capito come gira il mondo e sa misurarsi con la realtà per affermare la propria etica. Ma la grazia di Dio si ripercuote, ovviamente, sugli esiti. Che si devono misurare con i condizionamenti del mondo e hanno, perciò, sempre un prezzo.

I due temi, quello del contratto e quello della grazia, quello della causalità e quello della predisposizione, sono intrecciati in questo film estremamente articolato. La bellezza de Il Grinta è nel saper passare da questo a quello e di delineare perfettamente le differenze tra l’uno e l’altro. Ci sono momenti, come il finale, in cui i protagonisti si coordinano senza dirsi nulla, “si intuiscono” senza parlare. E altri in cui discutono su tutto. Gli accordi verbali e l’evento – il momento in cui le cose accadono, senza spiegazioni – sono messi in scena nelle loro opposizioni e nei loro nessi. Perchè da una parte c’è la grazia, dall’altra il contratto, infine la loro relazione.

Raccontando i rapporti tra la ragazzina più tosta del West, l’ormai malandato “Grinta” e La Boeuf, i Coen ci mostrano quanto il mistero sia fitto ma, a differenza di A serious man, sotto certi piani ricostruibile. Per questo il finale, amaro, non risulta imperscrutabile. Ma, come nel film tratto da McCarthy, il mondo è crudele e i pochi istanti di luce sono momenti che interrompono la consuetudine del buio. Il Grinta è bello. Bello. Grandi attori. Sempre più grandi i fratelli Coen.

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