«Da quasi vent’anni vivo in Sicilia. Qui mi è nata una figlia, qui spero di finire di mettere il bianco nella mia barba e, sotto questo sole, di vedere, se Dio vorrà, anche dei nipotini. Io sono dunque di passaggio. Ho insegnato in questa università siciliana, sono profondamente legato e ho parenti in questa terra. Si mettano dunque calmi coloro che sperano che questa cosa mi faccia levare le tende e andare per altri lidi. Non è questo il caso».
Era l’agosto 1988 quando Mauro Rostagno, il sociologo-giornalista che dalle frequenze di Rtc denunciava le malefatte e le collusioni politiche delle cosche mafiose locali, pronunciò queste parole dall’emittente trapanese. Un mese dopo sarebbe morto. In un agguato mafioso.
E un mese prima, nel luglio dello stesso anno, il suo amico e compagno di gioventù Adriano Sofri era stato arrestato con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi, avvenuto 16 anni prima.
Ma sotto accusa per quell’omicidio era tutta Lotta Continua, il movimento del quale lo stesso Rostagno era stato un leader amatissimo. E una comunicazione giudiziaria era arrivata anche a lui, come a molti ex dirigenti di Lc: a breve avrebbe dovuto incontrare il magistrato che indagava, su a Milano.
Ma anche se sollecitato dallo stesso Rostagno, quell’incontro non ci fu, perché il giudice non aveva fretta, a differenza dei killer che lo freddarono in una sera di settembre. Ma Rostagno fece almeno in tempo a diffondere via etere il suo pensiero sulla faccenda. Lo fece in due editoriali, il cui testo, trascritto, è agli atti del processo che, in queste settimane e a oltre 22 anni dalla sua morte, si sta tenendo a Trapani contro i suoi presunti assassini.
Rostagno rivendicava orgogliosamente e affettuosamente la sua appartenenza a Lotta continua e si diceva certo dell’estraneità di Sofri e del movimento all’omicidio di Calabresi. Una dichiarazione tanto ovvia quanto fondamentale, perché qualche anno dopo, nel corso del processo Calabresi, l’avvocato di parte civile Luigi Li Gotti sarebbe arrivato ad accusare Lotta continua, oltre che dell’omicidio del commissario, anche di quello di Mauro: «Rostagno non è morto per lupara: è stato fatto tacere! Sicuramente. Ma alla vigilia di un interrogatorio per questi fatti» tuonò nell’aula. Un’infamia uguale e contraria a quella che, solo qualche anno prima, aveva voluto vedere Rostagno coinvolto proprio nell’assassinio di Calabresi.
Ma l’effetto di quell’avviso di garanzia, nell’estate del 1988, fu soprattutto un altro: minare la credibilità di Rostagno, delegittimarlo, vanificare, di fatto, le sue denunce. Ha scritto Paolo Brogi, un altro ex dirigente di Lc destinatario all’epoca di un analogo avviso di garanzia mai, però, arrivato a destinazione: «Per i suoi nemici quella comunicazione giudiziaria fu un assist inatteso. Quel Pm che Rostagno ricorda ripetutamente essere in ferie in quel momento – non permettendogli quindi neanche di essere sentito – si è mai posto il problema di che cosa abbia significato in Sicilia, a Trapani, tutto ciò?».
Lui, Rostagno, se l’era posto, eccome, il problema. E aveva reagito a modo suo, non riducendosi al silenzio ma picchiando ancora più duro: «Qualche spiritoso, qua, in loco, si è fatto delle curiose idee sul mio conto, che vorrei subito dissipare, molto brevemente. Per esempio, si è fatta l’idea che questa vicenda ha finito per mettermi il bavaglio alla bocca, che c’è stata qualche sterzata nella mia vita e che è diminuita la mia presenza in questa televisione, insomma, che mi sono dato una calmata. Stiano pure tranquilli: non e cosi. Non mi sono calmato, perché non avevo nessun bisogno di calmarmi: infatti, non mi ero agitato neanche prima. Non ho sterzato, perché sono abituato ad andare dritto, piaccia o non piaccia, e sono, oltretutto, cocciuto e un poco testone».
Una cocciutaggine che gli costò la vita. E fa un certo effetto sentire oggi al processo dalla viva voce del questore Rino Germanà, all’epoca a capo delle indagini della polizia sul delitto Rostagno, che la pista mafiosa fu palese fin da subito, per la figura della vittima e per le modalità del delitto. Una verità lapalissiana che ha atteso però più di vent’anni per essere acclarata: perché una manina tolse le indagini alla polizia e le dirottò sui carabinieri, che esclusero il delitto di mafia per puntare su un’inesistente pista interna.