“Abbiamo già fatto cadere un governo Berlusconi nel ’94, ma sono pragmatico e lui è l’unico che mi dà i voti per il federalismo”. Ancora una volta, quando sembra arrivato il punto di rottura, Umberto Bossi torna a promettere fedeltà al Cavaliere. Ma questa volta gli indizi sembrano confermare l’exit strategy decisa dal senatùr con Roberto Maroni: da un lato Bossi si dice favorevole al processo breve, ma lo fa dopo che è saltata la calendarizzazione del provvedimento in Parlamento. Dall’altro richiama il premier bollando come “pessima” l’affermazione di Berlusconi che sabato ha detto di non voler disturbare Gheddafi. C’è poi un’altro punto fondamentale che costringe il Cavaliere a ripensare alle sue strategie per lo “scudo giudiziario”. Bossi ha infatti imposto l’alt sull’immunità parlamentare, che aveva già ottenuto l’ok da Pdl, Udc, e una parte del Pd.
Insomma, bastone e carota, per quella che ha tutta l’aria di essere un’ipotesi di uscita senza strappi. Anche perché resta alta l’asticella della contropartita pretesa dal Senatùr, che parla di maggioranza in crescita, quindi “per adesso” si va avanti. E aggiunge: “Io metterei la fiducia sul federalismo fiscale alla Camera”. A parole, quindi, la leadership del Cavaliere non è in discussione. Ma Bossi evoca tutti i fantasmi che probabilmente danno parecchi pensieri al premier: la caduta del ’94, ma non solo. Anche i nomi dei possibili, futuri premier. “Maroni – ha assicurato il ministro per le Riforme – non accetterebbe mai di fare il premier. Roberto ha voglia solo di andarsene in pensione per stare al mare. Tremonti? No, nemmeno lui lo farebbe. Vuole troppo bene a Berlusconi”. E poi i processi del premier, liquidati così: “Speriamo che vada bene”.
Evitare di forzare sul processo breve e sull’immunità. Il messaggio della Lega è arrivato forte e chiaro e lo stesso Bossi lo ha messo per iscritto, puntualizzando che è contrario a reintrodurre l’immunità parlamentare: “La gente – ha sottolineato – pensa che Berlusconi sia un po’ perseguitato e quindi sull’immunità per lui sarebbe d’accordo, ma non per tutti i parlamentari”. Del resto, la base leghista è in fermento, molti esponenti del Carroccio hanno avanzato al ministro delle Riforme la prospettiva di staccare la spina al governo appena dopo il federalismo.
Le “chiusure” della Lega sono state recepite a Palazzo Chigi. Silvio Berlusconi è alle prese con l’allargamento della maggioranza, per avere i numeri necessari per far passare i provvedimenti sulla giustizia e – nelle intenzioni – per garantirsi la fedeltà della Lega. Ma anche i tempi per poter contare tra gli effettivi anche i “Responsabili” si potrebbero allungare. Nel gruppo, riferiscono fonti interne al Pdl, c’è nervosismo. E nervosismo c’è anche nell’entourage di Berlusconi, che si sta preparando ad ogni evenienza. Anche quella elettorale.
Oggi a Palazzo Grazioli, come hanno immortalato le telecamere de ilfattoquotidiano.it, è stato visto anche Giorgio Moschetti, ex cassiere della Democrazia cristiana soprannominato “Gio’ il Biondo”, che a settembre sugli “house organ” di B. era stato descritto come personaggio chiave per affossare il nemico numero uno Gianfranco Fini. Lo scriveva Franco Bechis su Libero, che il 5 settembre scorso parlava di un misterioso dossier in cinque capitoli su altrettante vicende “politico finanziarie” riguardanti il presidente della Camera. L’ex senatore Dc è arrivato contemporaneamente all’onorevole Niccolò Ghedini, avvocato del premier, e sono rimasti a colloquio con Berlusconi per circa un’ora, prima di essere raggiunti da Silvano Moffa, deputato di Iniziativa Responsabile ed ex fedelissimo di Fini.
Altro cruccio storico del Berlusconi-elettorale è la pubblicità personale, con manifesti e iniziative di comunicazione. E il fatto che proprio adesso siano rispuntati i cartelloni pubblicitari a tappezzare le città può essere considerato un indizio. Stavolta, però il premier non ci mette la faccia. E a dire il vero nemmeno il nome del partito: “Silvio resisti, salva la democrazia”, “La sovranità popolare è sacra”, sono due slogan comparsi sui cartelloni per le strade di Milano. Firmati (vedi foto) da “associazione dalla parte della democrazia”, di cui non si trova traccia su internet. Oltre alle scritte, non c’è nessuna “rivendicazione” politica, ma solo un colore di sfondo, l’azzurro, che certo può suonare come un indizio.