Mezzo secolo dopo, la catena di montaggio del capitalismo industriale si è trasformata nella catena di smontaggio del capitalismo post-industriale. Mentre prima si producevano beni di consumo, profitto e illusioni, ora si producono in serie esistenze precarie, profitto (per pochi), rabbia e frustrazione (per molti). I figli, le figlie e i nipoti di chi negli anni Sessanta aveva vent’anni sono davvero andati a scuola, ma il loro diploma o la loro laurea oggi valgono poco o nulla, in troppi casi portano soltanto a stage gratuiti o a contratti (interinali, a termine, a progetto) mal retribuiti.
Si dirà: che ci vuoi fare, è la fase storica, è la ruota che gira, è la crisi, è colpa dei cinesi, è fuori dal nostro controllo. Ma sono scuse. La realtà è che qui e ora, nell’Italia del 2011 e in tutte le altre economie fino a ieri più avanzate, è necessario organizzarsi e iniziare a pensare a come opporsi alla catena di smontaggio che ci ha reso tutti – dall’operaio al migrante, dallo studente al lavoratore parasubordinato – precari e precarie.
Bisogna cambiare ottica, e parlare non più di diritto al lavoro ma di diritto alla scelta del lavoro: una libertà di scelta che permetta di rifiutare le marchette e le proposte indegne di aziende ingorde, furbe e bastarde che giocano al ribasso offrendo condizioni contrattuali e di salario sempre più infime. La lotta alla precarietà deve creare un nuovo linguaggio fatto di diritti, cittadinanza, interessi comuni. I diritti conquistati dai nostri genitori e dai nostri nonni, legati al posto fisso e alla famiglia nucleare, sono sotto attacco, e comunque non bastano più.
Vignetta di Arnald – Per ingrandire clicca qui