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La Cina “blocca” la Rivoluzione dei gelsomini asiatica censurando il web

I movimenti di protesta dei paesi arabi non si fermano, anzi, corrono sul web e raggiungono i paesi dell’estremo est asiatico. Il governo della Cina ha paura che anche nel paese scoppi la Rivoluzione dei gelsomini e ha bloccato sul nascere la protesta organizzata ieri da gruppi di persone a Pechino, Shangai, Guangzhou e in altre dieci grandi città.

Sabato scorso il presidente cinese Hu Jintao, parlando ai rappresentanti governativi delle regioni all’apertura di un seminario alla Scuola del Partito Centrale a Pechino, ha insistito sulla necessità di controllare più da vicino Internet e di guidare l’opinione pubblica. Senza accennare ai disordini e le rivolte che stanno scuotendo l’Egitto, il Medio Oriente, il Bahrain e la Libia ha detto che, nonostante la Cina stia diventando sempre più prospera, deve anche affrontare un acuirsi dei conflitti sociali che mette a dura prova l’abilità del partito di tenere tutto sotto controllo.

Il giorno dopo il discorso di Hu Jintao, il governo ha bloccato le conversazioni telefoniche e i siti web che incitavano il popolo a ribellarsi ed emulare la Rivoluzione dei gelsomini. Il primo messaggio è apparso su Boxun.com, il sito di una comunità cinese virtuale creata da Watson Meng che è il primo esempio di giornalismo partecipativo in Cina e che rappresenta una delle più importanti fonti alternative di notizie. Boxun.com è riuscito a pubblicare un video della piccola manifestazione organizzata a Pechino (guarda il video).

L’appello che circolava in Rete è rimbalzato attraverso alcuni siti oltreoceano gestiti da attivisti cinesi fuoriusciti. Il messaggio diceva: “Tu e io siamo il popolo cinese che ancora ha un sogno per il futuro. Dobbiamo agire responsabilmente per il futuro dei nostri figli”. I manifestanti avrebbero dovuto gridare gli slogan “Vogliamo il cibo”, “Vogliamo una casa”, “Vogliamo giustizia”, “Viva la libertà” e “Viva la democrazia”. Richieste sia per migliorare le condizioni di vita materiale, quindi, sia per il rispetto dei diritti umani.

Il governo cinese ha preso questo tentativo di rivolta molto seriamente. L’Information Centre for Human Rights and Democracy di Hong Kong ha calcolato che oltre 100 attivisti sono stati portati via dalla polizia, oppure messi agli arresti domiciliari o semplicemente spariti. Fra qualche mese, probabilmente, si saprà della loro detenzione. Queste sparizioni si aggiungono agli avvocati messi portati in prigione la settimana scorsa, durante una riunione per decidere come aiutare Cheng Guangcheng, l’attivista messo illegalmente agli arresti domiciliari dopo quattro anni di carcere per aver denunciato oltre 7mila fra sterilizzazioni e aborti forzati da parte del governo.

Twitter cinese ha anche bloccato la ricerca della parola “gelsomino”, e a ogni tentativo di includerla nelle pagine personali dei social network appare un messaggio che invita a non postare messaggi inappropriati. La parola non si può neanche cercare sui vari motori di ricerca.

Per questa volta la Rivoluzione dei gelsomini cinese sembra sventata. Qualche piccolo spiraglio di apertura si intravede però da parte delle autorità. Diversamente dal solito, l’organo del governo Xinhua ha riportato la notizia che la polizia ha gettato in prigione tre persone dopo l’assembramento di protesta a Piazza del Popolo a Shangai, nel centro nevralgico della città.

L’avvocato dei diritti umani Pu Zhiqiang ha dichiarato che è molto difficile che il governo cinese cambi, ma che quello che è successo mostra delle trasformazioni nella società cinese e “unisce e fortifica la mente delle persone”. Soprattutto, mostra che i politici possono controllare dei dissidenti, ma non possono impedire che la gente si unisca per un fine comune, perché queste riunioni sono organizzate spontaneamente e non dall’alto.

Il tentativo di organizzare una Rivoluzione dei gelsomini in Cina, benché senza grandi conseguenze sul piano politico e sociale, indica due cose nuove molto importanti. Prima di tutto mostra che la Cina non è impermeabile alla tendenza globale di richieste di miglioramento delle condizioni di vita che investe i paesi arabi: la Cina, insomma, non è più un paese a sé stante, aperto solo commercialmente al resto del mondo ma chiuso socialmente e politicamente in sé stesso. Il popolo recepisce le esigenze di cambiamento di altri paesi e le fa proprie, come se l’esempio che viene da fuori desse la stura a far sentire la propria voce.

L’altro fatto degno di nota è l’impatto di Internet, che in Cina conta oltre 450 milioni di utenti, sulle aspirazioni dei cittadini. È cominciato nel 2008 con la protesta dei tibetani di Lhasa, che viaggiava su Web, e continua ancora. Se il governo centrale non si aprirà a delle riforme sostanziali a beneficio non solo di tibetani, uighuri e attivisti del Falun Gong ma anche dei cittadini comuni, la stabilità sociale della Cina sarà sempre più minata e a niente servirà oscurare i siti, interrompere i collegamenti col cellulare o impedire il libero uso dei social network. Si è già visto in Nepal nell’aprile 2006: quando i tempi sono maturi la protesta dei gruppi di militanti, anche se duramente repressa, corre anche su Web e diventa rivoluzione popolare. A quel punto niente e nessuno riesce più a fermare i venti del cambiamento.

di Enrica Garzilli