Il delirante discorso pronunciato ieri da uno spettrale Muammar Gheddafi fotografa meglio di ogni altro elemento la clamorosa portata del micidiale terremoto libico. Attraversato da un marasma di rivolte e repressioni, ma anche dal dilagare di defezioni (ministri, ambasciatori, militari e via dicendo), il Paese è ormai in preda al caos. L’incertezza, elemento chiave della vicenda, ha stimolato negativamente i mercati generando un vero e proprio “panic selling” dei titoli delle società maggiormente esposte ai destini della Libia. Quello vissuto da Piazza Affari è stato a dir poco un inizio settimana da incubo. Unicredit e Impregilo, ma anche Ansaldo, Finmeccanica, l’Eni e persino la Juventus, registrano continui ribassi trascinando sul fondo l’indice borsistico. Ma mentre l’Italia si interroga sul futuro delle sue major e, ovviamente, delle sue forniture di energia, qualcuno ha iniziato a lanciare un allarme inequivocabile: i riflessi del collasso libico sarebbero pronti ad estendersi ben al di là del Mediterraneo e delle piazze finanziarie più prossime. La causa di tutto? Il petrolio, ovviamente.
L’amministratore delegato della Iea, l’Agenzia internazionale dell’energia, Nobuo Tanaka si dice apertamente preoccupato e non potrebbe essere diversamente. La situazione, lascia intendere senza mezzi termini, è piuttosto grave e a farne le spese potrebbe essere l’intera economia mondiale. “Se il prezzo del petrolio si manterrà a 100 dollari per tutto il 2011 – ha dichiarato – ci sarà una crisi come quella del 2008”. Una pessima notizia vista la tendenza degli ultimi giorni. Il greggio scambiato a Wall Street ha superato ieri i 93 dollari per barile (questa mattina sui mercati asiatici lo si tratta già a 96), il Brent europeo ha sfondato quota 105 (ma prima della chiusura si era arrivati anche a 108). Consapevole dei rischi immediati, l’Opec ha convocato una riunione di emergenza a Riyad ottenendo, ma questo era scontato, la disponibilità a un aumento della produzione da parte dell’Arabia Saudita. A ben vedere, l’unica buona notizia della settimana.
Al centro della questione c’è ovviamente la necessità di compensare il possibile congelamento delle forniture libiche. I leader della rivolta, i cui nomi restano per lo più sconosciuti, minacciano di tagliare i rifornimenti all’Europa se dai governi del Vecchio Continente non arriverà l’opportuna condanna della macchina repressiva del colonnello. Un avvertimento non da poco, specialmente per i vicini della riva nord. L’85% dei circa 1,6 milioni di barili prodotti quotidianamente da Gheddafi finisce in Europa. Un terzo del totale, ha ricordato ieri la Reuters, se ne va in Italia (che dalla Libia soddisfa il 23% del fabbisogno complessivo di petrolio e circa il 12% del gas necessario), il 14% in Germania mentre il 10% è acquistato dalla Francia. Dallo scoppio della sommossa le esportazioni sono già calate del 6% e adesso, ha riferito ancora la Reuters, il regime avrebbe addirittura dichiarato lo stato di forza maggiore sui contratti. In pratica la clausola che consente alle parti di liberarsi di uno o più obblighi all’interno degli accordi. Tradotto: un pessimo segnale.
Ma l’effetto della crisi libica non si limita a una riduzione dell’output petrolifero. Se così fosse, di fatto, un rinnovato sforzo da parte dell’Opec sarebbe sufficiente a scongiurare gran parte delle conseguenze negative ristabilendo un adeguato livello di disponibilità con un sovrapprezzo ridotto. Disgraziatamente, tuttavia, il problema è molto più complesso. Gli speculatori sono ormai in azione e non vedono nessun buon motivo per fermarsi. Il dramma, come insegna il recente passato, è che la spirale del gioco al rialzo sui “barili di carta” (i derivati futures, ovvero i contratti differiti d’acquisto) tende sempre a prevalere sui fattori di mercato “reali” della domanda e dell’offerta dei barili veri e propri. In passato, quando l’effetto “reale” aveva sempre la meglio, il destino dei prezzi era in mano all’Opec. Oggi, a tendere le fila del gioco al massacro ci sono i grandi trader di Ginevra e gli speculatori di tutto il mondo. Nell’estate del 2008, la supremazia di questi ultimi ha spinto il barile alla quota record di 147 dollari.
Nell’autunno di quello stesso anno, come noto, il prezzo del greggio subì poi un tracollo garantendo un enorme sollievo ai mercati. Un sollievo quanto mai tempestivo considerando il momento in cui si manifestò: Lehman Brothers era appena fallita e la crisi si dimostrava assai peggiore del previsto. Oggi, molti analisti concordano nel ritenere il basso prezzo dell’energia il fattore determinante della, per altro precaria, ripresa generale dell’economia mondiale. La paura, adesso, è che una corsa al rialzo del barile possa rovinare tutto. Tra le prime conseguenze ci sarebbe l’aumento dell’inflazione, un problema già in atto soprattutto nelle economie emergenti sulle quali pesa l’afflusso di capitali stranieri e la tendenza alle bolle di mercato. Ma i guai interesserebbero in generale tutte le economie fortemente dipendente dagli approvvigionamenti energetici esterni come, in primis, l’Europa, l’India e la Cina. Secondo l’analista di Merrill Lynch Sabine Schels, ha ricordato la società di consulenza londinese CityWire, quasi tutte le maggiori crisi economiche finiscono per essere connesse al rialzo dei prezzi del petrolio (la stessa tesi di Nouriel Roubini, forse il massimo esperto di “crisi” in circolazione). Se il barile Usa sfondasse quota 120, ha affermato la Schels in un recente rapporto, l’economia globale sarebbe seriamente a rischio collasso.
La speranza di un’inversione di tendenza nell’ondata speculativa resta ora connessa a una risoluzione della crisi libica ma anche, se non soprattutto, alla riduzione del rischio contagio sul fronte delle rivolte. Gli occhi degli analisti puntano ora decisi su Iran e Arabia Saudita, i due giganti del mercato petrolifero globale in cui il malcontento nei confronti dei rispettivi regimi, tra i più repressivi del Pianeta, si nutre avidamente degli effetti diretti dei problemi economici interni. Il 42% dei giovani sauditi è privo di un lavoro. L’inflazione misurata in Iran, ha segnalato Business Insider, si attestava al 13,5% all’inizio del 2010 ma, ad oggi, potrebbe anche essere raddoppiata. A Teheran come a Riyad, in compenso, la diffusione di Facebook e Twitter, strumenti privilegiati per la promozione delle iniziative di protesta, è in costante crescita.