Il 15 febbraio il ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani ha annunciato la firma di un accordo programmatico per salvare lo stabilimento Fiat e rilanciare l'economia locale con sette aziende che andranno a investire 600 milioni in Sicilia. Ma delle imprese coinvolte, tre hanno grossi problemi economici: dai bilanci in rosso alle quotazioni in calo
Tremila e trecento posti di lavoro, 450 milioni di euro di investimenti pubblici, 600 dai privati. Sono i numeri del dopo Fiat a Termini Imerese, quelli mostrati dal governo una settimana fa, dopo l’approvazione dell’accordo programmatico per il rilancio degli impianti siciliani e di una intera città. Un rilancio in grande stile che prevede l’ingresso di sette nuove aziende nel tessuto produttivo siciliano e che il ministero dello Sviluppo economico diretto da Paolo Romani ha presentato lo scorso 16 febbraio: “Oggi – commentava Romani – si apre una nuova fase per Termini Imerese. Siamo partiti da un grande problema occupazionale e abbiamo lavorato con determinazione per creare le condizioni necessarie al rilancio di uno dei più importanti insediamenti produttivi del Mezzogiorno. In questo modo sarà possibile tutelare 1.500 occupati, puntando a creare oltre 3.300 posti di lavoro una volta a regime. E’ un segnale importante della vitalità del tessuto economico italiano e della capacità del governo Berlusconi di mettere a sistema le migliori forze del Paese”. Belle intenzioni, in realtà, Perché di certo, ad oggi, c’è solo una cosa: alla fine dell’anno Fiat lascerà la Sicilia. E il grande rilancio potrebbe nascondere solo un grande bluff.
Per capire il perché bisogna fare un salto molto più a nord, a Grugliasco, per l’esattezza, dove questa mattina i 900 lavoratori delle carrozzerie De Tomaso, ex Pininfarina, protestavano per il mancato pagamento della cassa integrazione straordinaria di Febbraio. Per farlo, l’azienda sta aspettando lo sblocco dei fondi da parte dell’Inps, mentre il riavvio della produzione, dopo che il marchio è stato rilevato da Gian Mario Rossignolo è previsto per l’autunno. Rossignolo, ex presidente Telecom ed ex Lancia ha in mente di produrre nelle carrozzerie torinesi 8mila esemplari l’anno di un nuovo crossover che dovrebbe essere presentato a breve al salone di Ginevra.
Un progetto ambizioso, nel pieno della crisi dell’automobile italiana, che si scontra però con una serie di incognite. Oltre ai soldi Inps, infatti, l’azienda aspetta che vengano sbloccati i fondi europei per la formazione professionale dei dipendenti dei due stabilimenti (i motori verrebbero prodotti in Toscana), o che, in alternativa, i soldi vengano anticipati dalla Regione Piemonte. Una bazzecola di circa dieci milioni di euro che apre molti “se” sulla rinascita del marchio De Tomaso. Tanto che in molti, nell’ambiente sindacale torinese, dicono: “Se non si parte adesso non si parte più”.
Ma cosa c’entra De Tomaso con Termini Imerese? C’entra eccome, perché il nobile marchio delle carrozzerie di Grugliasco è capofila nella lista delle sette aziende che salveranno lo stabilimento Fiat. Lì, dicono le cronache entusiastiche della scorsa settimana, il marchio arriverebbe a produrre altri 35mila veicoli l’anno, distribuiti su due modelli. La rinascita di Termini insomma, è legata ad una azienda che ancora non c’è, che per il momento – per la volontà di Rossignolo che nell’impresa crede eccome – spende nell’attesa di produrre. Ma che di certo non si imbarcherà per la Sicilia con un piano industriale triplo o quadruplo rispetto a quello che affronta ora in Piemonte senza garanzie.
Ma De Tomaso non è l’unico che andrebbe a produrre auto in Sicilia. Al suo fianco, nel gruppo dei magnifici sette, c’è anche Cape Rev, che sotto il sole siculo andrebbe a produrre la sua auto elettrica. Il progetto si chiama Sunny Car in a sunny region e si propone di dare lavoro a 1400 persone solo a Termini e altre 2mila a Catania. Nasce dalla Cape Regione Siciliana di Simone Cimino, che ha acquisito dalla indiana Reva Electric Car Company il diritto esclusivo alla commercializzazione delle sue auto ad alimentazione elettrica. La Cape Regione Siciliana, peraltro, già beneficia dell’apporto della Regione, che ne possiede il 49%. Ma Cimino non naviga comunque in buone acque. Agrigentino, bocconiano, un passato in Montedison (dal 1985 al 1991) ha ottimi agganci con il governatore Lombardo. Più volte ha provato a sfondare sull’isola, ma più che successo ha costruito debiti: Ice Cube Impianti, che proprio a Termini Imerese produce ghiaccio alimentare, ha chiuso in perdita sia il 2009 che il 2008. Poi ci sono il gruppo alimentare Zappalà e la T-Link di Navigazione. Quest’ultima è la croce di Cimino. La compagnia, che collega Termini con Genova, ha raggiunto a luglio 2010 perdite superiori al capitale, costringendo i soci a sostanziose iniezioni di denaro. Ma Cimino non si perde d’animo e le cronache raccontano investimenti a Termini per 180 milioni di euro, a fronte di un impegno pubblico (nel caso i soldi siano distribuiti proporzionalmente) di circa 67 milioni.
Il suo è il terzo progetto più rilevante nella “rinascita” siciliana, dopo quello di Rossignolo (380 milioni) e Ciccolella, gigante internazionale nella produzione di fiori. Seguono tutti gli altri: Med Studios (teatri di posa per cinema e fiction tv per la Einstein Multimedia), Lima Corporate (protesi mediche), Biogen Termini (impianti stoccaggio e lavorazione biomasse) e Newcoop (logistica e grande distribuzione): in tutto fanno un terzo dei 3.300 posti di lavoro per costituire attorno a Termini anche un rilancio generale dell’economia locale. Torniamo a Ciccolella: il gruppo dovrebbe iniettare nella terra siciliana circa 200 milioni di euro. Ma anche “il più grande giardino del Mediterraneo” non se la passa benissimo: Nel 2008 aveva chiuso con 452 milioni di ricavi e 52 di perdite. Nel 2009 è andata anche peggio, con i ricavi scesi a 413 milioni e le perdite contenute a 21. Dove Ciccolella sta ancora peggio, però, è in borsa. Dal massimo di 7,6 euro del 2007, il titolo è scivolato insieme alla crisi economica fino ai 2,39 euro nel 2008. Ora si aggira attorno ai 70 centesimi per azione dopo un minimo di 66 e un massimo di 77 centesimi, realizzato il 15 febbraio, nel giorno dell’annuncio della firma sull’accordo di Termini.
Se son rose fioriranno, verrebbe da dire. Ma il dubbio, spiega il segretario della Fiom di Palermo, Roberto Mastrosimone, è che alla fine il gioco a carte scoperte sveli il bluff: “Basta solo che una delle aziende si sfili – dice – e qui salta tutto”. Per questo il sindacato chiede urgentemente di incontrare il governo per capire in concreto cosa e quando accadrà. Il dubbio più impellente, dice ancora Mastrosimone, è capire “su quali basi l’advisor del governo, Invitalia, ha deciso che le aziende avevano i requisiti corretti per l’accordo. Ci chiediamo con quali criteri”. L’unica certezza che rimane, chiosa con amarezza, è “che Fiat se ne andrà, il resto è uno spot mediatico”.