“Però quei sei sacchi di carbone se li poteva risparmiare” diceva Luigi Martino, arrestato nei giorni scorsi insieme a Luigi Russo con l’accusa di aver protetto la latitanza di Giuseppe Setola, il capo dell’ala stragista del clan dei Casalesi. I “sacchi di carbone” di cui parla Martino in una conversazione dell’11 luglio 2009, captata con una cimice in un auto, sono i sei immigrati africani uccisi da un commando agli ordini di Setola.
Il massacro avvenne in una piccola sartoria di Castelvolturno (Caserta) il 18 settembre 2008, in quella che verrà ricordata come la “strage di San Gennaro”. Un delitto che segnò l’apice della strategia del terrore messa in atto in quei mesi da ‘O Cecato’. Il colloquio intercettato risale a circa sei mesi dopo la cattura di Setola. L’interlocutore di Martino, tale Paolo, gli dà ragione e definisce inarrestabile la furia del killer: “…..eh… ha fatto un passo enorme… neh… Luì… va a finire che faceva il bar… la caserma… la macchina… la casa… si prendeva tutto quanto… mica diceva no…”.
Ma attenzione: la critica della manovalanza camorristica all’operato del boss non riguarda la ferocia e la sostanziale inutilità dell’omicidio di sei immigrati inermi, ma il metodo utilizzato. Traspare chiaramente dal prosieguo del colloquio e da una successiva intercettazione ambientale del 19 luglio 2009, quando Martino spiega a tale Paolo P: “(Setola ndr) ha fatto troppo ‘a muina (casino ndr) ha fatto, ha sbagliato tutto coso…”, ”… Ma non è che ha sbagliato, doveva fare piano piano Paolù…”. Per i due l’azione doveva essere pianificata diversamente. Setola avrebbe dovuto uccidere gli extracomunitari uno alla volta. E comunque i due sono d’accordo su una cosa: Setola avrebbe comunque portato a termine l’azione criminosa anche se avesse trovato venti extracomunitari. Dice P.: “Lo sai come lo dove fare questo fatto Luì? Prendeva la macchina, prendeva tre guaglioni… quattro di questi nella macchina andavano fuori là, prendeva a uno con i capelli lo buttava nella macchina e se lo portavano, il compagno NERO… vedevano che sono andati a prendere quello là… lo prendeva con la testa e lo metteva nel cium (fiume ndr) e poi il giorno a presso andava la e ne prendeva un’altro. Ti faccio vedere io come…. li spariamo tutti quanti….. o mi sbaglio? Escono sette – otto insieme… adesso là ne stavano SEI, se stavano 20- tutti e 20 prendevano, Luigi o no?”.
I colloqui intercettati sono alla base delle 164 pagine della richiesta di arresto dei fiancheggiatori di Setola firmata da otto sostituti procuratori della Dda di Napoli e dal coordinatore della sezione, Federico Cafiero De Raho. Un fascicolo che ricostruisce nei dettagli il modo in cui ‘o Cecato ‘gestiva’ i suoi uomini e gli affari del clan dei Casalesi durante la latitanza, trascorsa intensificando le estorsioni e gli omicidi che hanno insanguinato il casertano e il litorale domizio. Quando Setola sembrava un boss inafferrabile.
Venne catturato il 14 gennaio 2009 dai carabinieri guidati dal colonnello Carmelo Burgio a Mignano Montelungo, in una casa attigua a una clinica privata. Pochi giorni prima era sfuggito all’arresto a Trentola Ducenta scappando attraverso le fogne. Della sua rocambolesca cattura si accenna anche nell’ordinanza di arresto di Martino e Russo. Secondo Martino, se Setola fosse stato in compagnia dei suoi guardaspalle, non si sarebbe arreso: “O se ne scappavano o si facevano ammazzare”.