Il teatro La Fenice di Venezia

Questione di colore. Senza nessuna logica apparente, il governo, attraverso il decreto Milleproroghe, ha staccato un assegno da tre milioni di euro all’Arena di Verona e altrettanti alla Scala di Milano. Soldi arrivati grazie a equilibri politici. Verona, marchiata Lega Nord, e Milano saldamente in mano al Pdl. Così le fondazioni della lirica guidate dai rispettivi sindaci, Flavio Tosi e Letizia Moratti, portano a casa i soldi che sono stati negati a tutti gli altri teatri italiani.

Ne avrebbe avuto meno diritto la Fenice di Venezia? No, probabilmente. Ma Venezia ha scelto Giorgio Orsoni e la sinistra. Quanto basta per essere esclusa. Lo ammette candidamente Paola Goisis, deputata padovana e responsabile cultura del Carroccio: “L’accordo l’ha portato avanti la Lega. Dunque a noi la scelta. E siccome abbiamo più voti a Verona abbiamo scelto di escludere Venezia”.

La decisione che ha mandato il capoluogo veneto su tutte le furie. La città e la Fenice sono due simboli della cultura, ma la richiesta di essere inseriti nel Milleproroghe non è stata neanche presa in considerazione. L’epilogo? Il caos: Orsoni che se la prende col ministro Renato Brunetta, colpevole di “disinteressarsi della sua città”, Brunetta che replica al sindaco “incapace di tenere sotto controllo i conti della Fenice” e Tosi che sorpassa tutti e propone per Verona una tassa sul turismo che andrebbe a finanziare ulteriormente l’Arena inimicandosi albergatori e Confommercio.

Ma andiamo con ordine. Il primo grido d’allarme era stato proprio Tosi a lanciarlo. Perdere l’Arena e la stagione lirica avrebbe voluto dire segnare inesorabilmente il suo mandato. Così si era messo a girare per le stanze ministeriali della “Roma ladrona” in cerca di quei soldi negati al Fondo unico per lo Spettacolo. Prima un tentativo con Giulio Tremonti, andato inesorabilmente a vuoto, poi la richiesta d’intervento del “mediatore” Roberto Calderoli, infine la minaccia di guidare una crociata contro i vertici del Carroccio se non avessero costretto il governo e l’amico Giulio a mettere mano al portafogli. Quando Tosi l’ha messa sulle dure Roma ha ceduto. Ok a tre milioni una tantum, purché lo stesso trattamento venisse riservato alla Scala che, nel consiglio d’amministrazione, annovera personaggi più influenti e vicini a Berlusconi, tipo Bruno Ermolli, giusto per fare un nome.

La notizia ha fatto venire un attacco di bile a Orsoni, presidente della fondazione lirica della Fenice e sindaco di Venezia. “Quando serve, Venezia è il palcoscenico mondiale, tutti ne parlano riempiendosi la bocca – ha denunciato dalle colonne del Corriere della Sera – poi, al momento buono, la Fenice resta all’asciutto; mentre l’Arena, retta da Flavio Tosi, sindaco leghista, si prende i quattrini. La prossima volta, Bossi non venga in laguna a festeggiare la Padania, vada piuttosto a Verona. L’Arena è vero, è un’istituzione conosciuta nel mondo, soprattutto per l’impatto popolare e per la scenografia. Se, però, parliamo di qualità dell’opera lirica, si trova a mille miglia di distanza dalla Fenice. Che, tra l’altro, nulla ha da invidiare alla Scala di Milano”. Poi il bersaglio principale, il ministro Brunetta. “In campagna elettorale ha promesso mari e monti, poi non ha fatto niente per la sua città”.

Brunetta, da parte sua, ha risposto per le rime: “Avesse tenuto i conti in ordine non saremmo a questo punto. Poi il sindaco è male informato: i suoi colleghi di partito sapevano che, viste le condizioni in cui si trova la fondazione che presiede, non avrebbe avuto diritto a nessun finanziamento”.

Polemica finita? Il sindaco di Verona ha detto sì alla tassa di soggiorno, sulle orme di quanto fatto a Roma, con l’idea di girare i ricavi all’Arena. Ma ha trovato subito il niet del presidente degli albergatori di Confindustria della sua città, Gianni Zenatello. “Improponibile chiedere ai turisti di pagare prezzi maggiorati, a Verona si arriva per piacere, non è una tappa obbligata come Roma. Gli unici a rimetterci sarebbe gli albergatori”. Tosi però non si è scoraggiato e ha promesso di calibrare la cifra a seconda della struttura ricettiva: pochi centesimi per un bed & breakfast, 5 euro per gli hotel di lusso. In questo modo non sarebbe penalizzato nessuno, dice lui. Immediatamente smentito dalle associazioni di categoria che, conti alla mano, hanno spiegato al sindaco che la sua operazione metterebbe in ginocchio gli albergatori, alla fine del ciclo gli unici veri tartassati.

Per ora il capitolo si chiude. Verona e Milano in qualche modo pareggeranno i conti. La Fenice vedrà un tabellone ridotto e il serio rischio di chiudere per mancanza di soldi. Ma soprattutto perché governano Pdl e Lega e hanno trovato un modo, tutto loro, per far capire alle città del centrosinistra che conviene cambiare opinione.

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