Offrire alla collettività best practice, esempi di buona amministrazione, di questi tempi non è facile. Ma un’istruttiva indicazione di buon governo si può offrire anche in negativo, indicando esempi da non seguire assolutamente: le worst practice, per l’appunto. E’ la linea da tempo intrapresa dalla Regione Siciliana, inimitabile scuola in questo campo. Prendiamo ad esempio il tema delle partecipazioni regionali: dopo anni di retorica sulla presunta maggiore efficienza della gestione privatistica rispetto a quella pubblica, il bollettino di guerra delle rilevanti perdite societarie subite da tale gestione sta ora inducendo il governo Lombardo ad un’inversione di marcia con la dismissione di ben 22 delle 33 partecipazioni detenute.
Se è vano piangere sul latte versato, qualche doverosa considerazione va fatta soprattutto a favore delle giovani generazioni perché sia chiaro, nonostante i germi della cultura greca colonizzatrice, che non c’è nessun tragico e ineluttabile destino, nessun fato da subire senza speranza, nessun capriccio degli Dei cui addebitare l’ingiusto spreco di tante potenzialità di sviluppo economico vero, la fuga di tanti cervelli costretti ad emigrare e le tante occasioni di lavoro perse per coloro che hanno comunque deciso di restare.
No, la causa di tutto ciò è solamente addebitabile ai meccanismi – formalmente – democratici di costruzione del consenso e di selezione della più squalificata e squalificante classe dirigente che la storia repubblicana conosca, grazie anche all’assenza di un’informazione indipendente che faccia da contrappeso al potere politico e non rappresenti invece un “pezzo del potere”, capace solo di scrivere o “sotto dettatura” del Palazzo o per denunciare le malefatte di una parte, ma esclusivamente nell’interesse dell’altra. Mi riferisco, ovviamente e sconsolatamente, a politici, sindacalisti e giornalisti dei partiti di destra come di sinistra.
Vorrei quindi soffermarmi su due significative dismissioni tra quelle annunciate. La prima riguarda la partecipazione della Regione nel Gruppo Unicredit, ridottasi ormai a circa 180 milioni. Nel 2008, prima della crisi dei mercati, vox clamans in deserto, avevo scritto sulle pagine regionali di Milano Finanza che quella partecipazione, assieme a quella paritetica della Fondazione Banco di Sicilia (una fondazione controllata da soggetti pubblici e che rischia di sopravvivere ad una banca regionale che non c’è più, se non come brand), poteva essere più saggiamente utilizzata per favorire il rientro dei cervelli.
Allora la complessiva partecipazione valeva 700 milioni e poteva essere utilizzata per creare laboratori di ricerca, pura ed applicata, individuati in settori prescelti da un comitato scientifico di indiscusso livello. Anzi, per sottrarre queste risorse agli appetiti dei politici e dei baroni universitari, proponevo di conferire il ricavato della dismissione Unicredit in un trust di scopo col compito di mettere a contratto ricercatori, siciliani e non, a tempo determinato, sulla base di criteri esclusivamente meritocratici e con l’impegno a sfornare, a medio termine, pubblicazioni o brevetti. I brevetti si sarebbero poi potuti cedure al mercato, mentre la Regione avrebbe percepito delle royalty dando così luogo ad una economia fondata sull’intelligenza, una delle voci più apprezzate del Made in Sicily. Ovviamente, non era genere di proposta che poteva minimamente interessare la politica, almeno quella conosciuta sinora.
La seconda dismissione riguarda Sicilia Patrimonio Immobiliare S.p.A., cui è stata demandata in questi anni la valorizzazione del patrimonio immobiliare regionale e di cui ho già parlato in questo blog. La Regione contava di incassare non meno di 900 milioni da tale opera di valorizzazione, avvalendosi di un socio privato del settore e, non so come, ha chiuso pure dei bilanci con tali previsioni di entrata. In realtà, ha incassato solo 202 milioni e pagato 80 milioni al socio privato per un censimento che forse poteva fare gratis l’Agenzia del Territorio, mentre sta pagando, dal 2007, circa 21 milioni di affitto annuo sulle sedi di assessorati e altri uffici pubblici. Immobili che un tempo erano di proprietà e che sono stati ceduti all’unico fondo immobiliare varato all’interno di una valorizzazione limitata ai “gioielli” del suo patrimonio, mentre alle gare per valorizzare il resto non si è presentato più nessuno.
Rimane alla Regione una quota del 35% del fondo immobiliare che limiterà comunque ad un terzo gli utili, quando ci saranno, di un’operazione costruita sul proprio patrimonio e con l’evidente fine di raccogliere soldi: pochi, maledetti e subito. Già, perché dato che l’indebitamento è consentito solo per gli investimenti, mentre serviva far cassa per le spese e il deficit correnti, ci si è preclusi, sciaguratamente, la possibilità di utilizzare il patrimonio immobiliare della regione per finanziare qualche importante investimento infrastrutturale. Non penso certo al Ponte sullo Stretto, ma ad un’infrastruttura molto più utile alla crescita economica di settori strategici per la Sicilia come il turismo, la fruizione moderna dei beni culturali, l’agricoltura di qualità, ecc. Penso alla copertura dell’isola con la banda larga assicurata, ad esempio, dal WiMax, che favorirebbe di tutto e di più: l’e-commerce, la localizzazione di nuove imprese tecnologiche nell’isola, una informazione più consapevole dei cittadini, ecc. Per finanziare questi investimenti in tecnologia digitale, la Regione avrebbe potuto banalmente cedere temporaneamente il patrimonio immobiliare attraverso un’operazione di lease back, ripagata grazie al flusso assicurato dagli affitti di assessorati e altri uffici di cui avrebbe mantenuto l’uso e recuperato al termine la proprietà al valore di riscatto. Questa possibilità, ripeto, è oggi definitivamente preclusa mentre ci si affretta a mettere una pietra tombale su questa scandalosa vicenda.
In conclusione, tornando alla retorica della presunta maggiore efficienza della gestione privatistica attraverso società di diritto privato, a controllo o partecipazione pubblica, questa affermazione è vera solo se il capitale è pure privato, perché dietro questa retorica opera ben altra grammatica che punta ad assunzioni senza concorsi e criteri trasparenti meritocratici, incarichi clientelari nei consigli di amministrazione, auto blu e benefit vari: tutte cose che l’imprenditore privato e prudente accuratamente evita se non vuol rimetterci i suoi soldi. Già, perché finchè continueremo a pensare che i soldi pubblici sono di nessuno e non di ciascuno di noi, certe cronache non cambieranno e dovremo aspettarci solo nuove e originali occasioni di spreco con la scusa dell’efficienza, della valorizzazione, del riordino, del riassetto, della razionalizzazione, del rilancio e via dicendo. Un interminabile gioco di potere sulla pelle dei cittadini e sul futuro delle giovani generazioni.