C’è un momento ben preciso in cui dall’adolescenza si ha accesso all’età adulta. Mary Shelley ebbe il suo in una strana estate del 1816 trascorsa a Villa Diodati, nei pressi di Ginevra, ospite di Lord Byron. Con il futuro marito, il poeta Percy Shelley, la sorellastra Claire Clairmont e il medico John William Polidori, assistente del ricco padrone di casa, Mary passò il tempo praticando quei divertimenti per cui al sostantivo “poeta” non di rado si associa l’aggettivo “maledetto”: leggendo storie di fantasmi, parlando di galvanismo e soprattutto di quell’Erasmus Darwin che giurava di aver rianimato la carne morta.
Quale migliore spunto storico per il geniaccio cafone dell’adorabile Ken Russell? Era il 1986 quando l’autore di Donne in amore e I diavoli decise di raccontare, a modo suo, la vicenda con Gothic, esposto nelle sale cinematografiche inglesi proprio il 27 febbraio, precisamente venticinque anni fa.
Disprezzata dagli amanti del cinema rigoroso e non solo, quella di Russell è una pellicola in cui l’ottimo cast si piega diligentemente agli arabeschi di un cineasta cui non sono mai importate le mezze misure. Gli spettatori non avvezzi alle orge visive oppure privi di uno spiccato senso del ridicolo si astengano, possono sempre dedicarsi a trasposizioni della celebre vicenda meno indiavolate, ma anche meno affascinanti, quali il corretto L’estate stregata di Ivan Passer o il malfatto Remando al viento di Gonzalo Suárez in cui Hugh Grant interpreta il ruolo di Byron.
Stando ai veri diari della Shelley, gli acquazzoni di quel maggio costrinsero spesso la combriccola in casa. Fu per combattere la noia, allora, che l’anfitrione propose ad ognuno dei suoi invitati di scrivere una storia dell’orrore. Se la maggior parte di loro con buona probabilità preferì il laudano oppure un dolce far niente allo sfiancante esercizio letterario, in una di quelle notti la più diligente Mary ebbe un’idea per cui il buon Boris Karloff le sarebbe stato grato per sempre. Nacque a Villa Diodati, infatti, il nucleo originario del suo Frankenstein o, il moderno Prometeo.
Per evitare la figura del buffone, almeno Byron provò a partecipare al gioco proposto, abbozzando la storia di due viaggiatori, uno dei quali si rivelerà un vampiro. All’epoca più famoso tra le ragazzine di quanto sia oggi Robert Pattinson, il Lord inglese non aveva però abbastanza tempo da perdere con penna e calamaio e finì con il lasciare incompiuta una traccia che quel Polidori cui era legato da uno stramba dialettica avrebbe poi sviluppato.
Lo spunto del dio Byron nelle mani del satiro Polidori divenne una specie di parodia di ciò che i più pensavano del chiacchieratissimo poeta: complice una punta d’invidia che fa il paio con la devozione, nel satanico protagonista de Il vampiro il medico/scrittore adombrò, infatti, il suo vate. Di quello stesso vampiro, sottaniere e tenebroso, all’origine stessa del “carattere byroniano”, si ricorderà certamente John Badham per il sensuale, memorabile e sottovalutato Dracula con Langella e Olivier.
Ironia della sorte, per decenni, l’operetta di Polidori fu attribuita erroneamente a Byron, al punto che lo stesso Goethe arrivò a considerarla tra i migliori risultati dello scapestrato Lord. I più maliziosi ne sentono l’influsso addirittura nel romanzo capolavoro di Bram Stoker, l’epistolare Dracula (1897), alfa di tutte le storie di vampiri. Nonostante la permanenza a Villa Diodati fosse dovuta a ragioni pratiche – decidere la sorte del bambino che Claire aspettava da Byron –, non c’è dubbio dunque che quella convivenza resa più stretta dalle svantaggiose condizioni atmosferiche conti per la letteratura gotica, almeno simbolicamente, quanto l’incontro di Teano per l’Unità d’Italia.