Cultura

L’avvocato col vizio della contaminazione

di Pasquale Rinaldis

Sulle sponde del Gange, il fiume dallo stanco incedere delle sue acque, Modestia incontrò Timidezza e nacque Ispirazione. Questa è la storia di un incontro, casuale e inaspettato, tra la musica e un ascoltatore in cerca d’autore, una storia per figli di Prometeo mai domi alla perenne ricerca della libertà.
Tutto succede all’improvviso: un cd tra le mani, il gesto di inserirlo nel lettore è quasi automatico, come lo è il premere “play” e rovesciarsi all’indietro dove aspetta sorniona la poltrona di velluto rosso. E’ incominciato il viaggio, guidato dal favore dei venti del quadro destro della Rosa.
Parlare di musica e degli uomini che la animano mi dà sempre un certo piacere, ma in questo caso ha un sapore speciale. Il motivo è semplice, oggi parliamo di Federico Palladini.

Lo incontro una prima volta in un locale dove si suona musica dal vivo. Non ha il classico aspetto eccentrico e stravagante che ti aspetteresti da un giovane artista in cerca di successo. No, la sua immagine seria e affabile trasmette da subito una sensazione di grande serenità, che solo le persone che hanno una certa confidenza con il pensiero profondo sanno trasmetterti.
Passano mesi e mi ritrovo in un corridoio angusto ed affollato, illuminato a stento dalla luce smorta di un mattino di febbraio e che non si sa come trova il modo di sforare le fessure lasciate dalle porte socchiuse degli uffici, tutt’intorno professionisti della toga che discutono di decreti, pareri e ingiunzioni.
Il volto mi ricorda qualcuno, tono pacato e sguardo gentile e attento, la coda dell’occhio vigile verso l’ennesimo punto di fuga nei suoi pensieri. L’uomo è un avvocato, lo chiamano: “Federico!” lui si volta, sorride timidamente e ci si stringe la mano. “Io ti conosco, ci siamo visti in un locale in compagnia di amici comuni”. “Ah si?” Non dice niente per non essere scortese e non confessare di non ricordare la circostanza, ma oramai mi è chiaro che l’autore di Punti di fuga non è il classico giovane spiantato in cerca di accasarsi in un salotto per discografici, piuttosto un Paolo Conte (l’avvocato col vizio del jazz) con barba folta e curata e i capelli scuri invece che canuti.

La storia della musica non manca di artisti provenienti dalla libera professione: Enzo Jannacci, Roberto Vecchioni e lo stesso Paolo Conte ne sono una testimonianza nota, quindi nulla di strano, ma è il parlare con Federico che ti dimostra che certe opere non sono e non possono essere frutto del caso, ma di una sensibilità che unisce la ricerca a una vena intimista non comune nel panorama musicale italiano. Del resto la sua formazione parla per lui: agli studi di pianoforte e chitarra classica seguono negli anni corsi per arrangiatore di musiche da film e teatro, grazie ai quali collabora e matura una buona esperienza in diversi importanti progetti. Ma sono sicuramente gli ascolti che danno la connotazione maggiore alla sua creatività. Da una parte i cantautori italiani – su tutti De André e De Gregori – dall’altra i grandi artisti stranieri: dai Beatles ai gruppi punk passando per la fase dark dei Clash e dei Cure, senza però dimenticare gli amati Pink Floyd, almeno fino all’addio di Roger Waters. Gli ascolti di musica classica (soprattutto Mozart) si mescolano poi a quelli dei cantautori della caratura di Capossela, Battiato, Paolo Conte.

In questo periodo, confessa Federico, ascolta con piacere i primi Dead Can Dance e anche il tango argentino, a testimonianza del fatto che la musica non deve avere troppi vincoli di genere, ma, seguendo le ispirazioni del momento e lasciandosi contaminare dalle diverse sonorità, si può arrivare a stabilire un contatto globale e sensoriale positivo tra ciò che si ascolta e ciò che si produce, senza preoccuparsi troppo delle mode del momento e di quello che maggiormente richiederebbe il mercato discografico. Federico Palladini, nella sua complessità risulta essere l’anima pulsante, il motore immobile di Punti di fuga. Le sue precedenti esperienze musicali lo vedono parte integrante del gruppo rock G.O.A.D.S. e solo successivamente un processo di maturazione interiore lo porta a intraprendere un percorso da performer solista avvicinandolo in qualche modo alla canzone d’autore. L’esigenza di esplorare lo spazio dimensionale della musica lo porta poi a radunare intorno a sé un manipolo di musicisti versatili e dalle più diverse estrazioni musicali: dalla classica al jazz, fino al folk. Nasce così La Banda della Scolopendra: Matteo Panetta (violino acustico, violino elettrico, pianoforte elettrico, cori, arrangiamenti), Massimo Campasso (batteria, cajon, percussioni), Paolo Tricca (chitarra elettrica e dobro), Giovanni Mancini (chitarra elettrica), Flavio Perrella (contrabbasso), Paolo Sturniolo (basso elettrico), Davide Petrillo (fisarmonica) e per stessa ammissione del cantautore hanno contribuito in maniera determinante alla caratterizzazione del sound del progetto.

Federico, sarebbe interessante conoscere quali stimoli può avere un artista che, come nel tuo caso, fa questo con passione e sentimento ma che deve ritagliare spazi ed energie alla vita di tutti i giorni. Di professione fai l’avvocato, come riesci a conciliare la tua doppia veste di professionista della toga e la vocazione-produzione artistica? Quali aspirazioni coltiva Federico Palladini per se stesso?
Aspiro a una vita emozionante. Perciò coltivo tutto ciò che può contribuire al piacere di vivere. La mia professione è l’avvocatura. Mi piace molto. Merita concentrazione e mi ci dedico con la massima serietà, data l’importanza degli interessi in ballo. La musica invece è una passione pura che restituisce ogni volta la serenità e la libertà di cui ho bisogno. E finché rimane tale, libera da compromessi e dai vincoli delle regole del mercato discografico (che spesso causano vera e propria sudditanza), convive alla perfezione con l’attività professionale. Prima intendevo il lavoro e la musica in maniera “schizofrenica”, come vera e propria separazione psicologica. Adesso la penso in maniera diversa. Tutto convive in pace e osmoticamente. La musica riempie i vuoti e dà colore ad alcuni toni grigi della professione. La professione dà sicurezza al contesto in cui la musica si svolge. Il tempo di rendere alla musica le giuste attenzioni, se si vuole, lo si trova sempre. Così come per ogni altra passione. Perché così si rendono le giuste attenzioni a se stessi, alla propria vita. Se ci si lascia travolgere dal ritmo innaturale del solo lavoro, si perde una chance.

Un aspetto interessante che vorrei analizzare è riconducibile alla tua complessa formazione musicale. In funzione di questo arcipelago pregresso, come si inserisce l’album Punti di fuga? Esiste un continuum, una linea guida nei vari brani dell’album, o la diversità d’influenze corrisponde anche alla necessità da parte tua di esprimere le diverse anime dell’uomo e dell’artista?
Ho maturato da tempo un’idea di libertà nel non confinarmi in uno stile o in un “genere”. Ritengo che la musica sia l’unico genere mentre le sue innumerevoli forme stilistiche siano delle espressioni. Il mio – personalissimo – giudizio è che confinarsi in un unico genere, rifiutando gli altri a priori, può essere costrittivo. Non ha senso la scelta della preclusione quando si può essere liberi. Queste considerazioni sono alla base di Punti di fuga, che è un disco essenzialmente sulla libertà, che si sviluppa forse in modo da sfuggire a classificazioni di genere, muovendosi tra ballate, echi di tango, folk, pezzi elettrici che spuntano all’improvviso. Mi sono posto, in verità, il problema della possibile eterogeneità dell’album, durante la fase della pre-produzione. Ho anche pensato di produrlo sotto un’unica veste più prettamente acustica, più omogenea, in linea con il precedente Di notte… Poi ho capito che proprio quello era invece lo spirito del disco, la liberazione dai vincoli. Punti di fuga è un disco dedicato a tutti i figli di Prometeo che non hanno rinunciato alla speranza di libertà. E i punti di fuga sono innanzitutto le vie di evasione, ma sono anche i punti della prospettiva, cambiando i quali cambia l’angolazione e quindi la visione delle cose. E’ il percorso tematico che dà unitarietà all’album, la concatenazione delle canzoni, che a mio avviso lo rendono un concept a tutti gli effetti.

L’idea del concept album e il linguaggio ricercato ed evocativo portano il tuo lavoro su livelli di opera introspettiva a scopo catartico. Personalmente ho apprezzato due pezzi in particolare e cioè Regina del cielo e Zarathustra dance nei quali si possono scorgere il filo rosso che unisce Punti di fuga al concetto di movimento e a quello del viaggio. Nel primo brano si ravvisa una sorta di movimento in stasi temporanea con in nuce i prodromi del volo libero, nel secondo invece, un movimento verticale, un’ascesa intensa a scrutare le verità assolute e quindi l’anima dell’uomo. Non so se sei d’accordo con questa mia riflessione, ma se di concept si tratta, potresti illustrarci lo sviluppo del tuo lavoro?
Mi piace questa riflessione sul movimento. Il disco si basa sul movimento ed è costruito secondo una struttura ben precisa. Regina del Cielo è la canzone intorno al quale gira l’album e probabilmente il suo passepartout. E’ anche quella che si potrebbe considerare “canzone pilota” sia per il ruolo che ha nel disco sia per il testo che per la musica. E’ il “luogo” d’inizio del viaggio. Immaginiamola secondo una prima chiave di lettura come la cella di un carcere, Regina Coeli. Utilizzando una seconda chiave, o meglio un secondo “punto di fuga”, vi si leggerà una qualsiasi situazione di costrizione o disagio. Secondo una chiave di lettura più profonda è uno stadio iniziale del sé, dal quale inizia il percorso spirituale. Il disco è fatto così, può essere letto secondo diverse chiavi e visto da varie angolazioni. Il protagonista ideale ha in sé i prodromi del volo libero, è pronto a muoversi e volare. Regina del Cielo è preceduta da un antefatto. La prima canzone dell’album, Sabbah, parla della seduzione delle streghe e del male, del peccato che incanta e corrompe il nostro protagonista ideale. Nella seconda traccia, Tutto accade all’improvviso, l’incantesimo svanisce e il protagonista si ritrova da solo. La solitudine diviene una cella, in Regina del Cielo. A questo punto, per non rimanere prigioniero nelle quattro mura ideali, inizia il percorso di “liberazione” o di “consapevolezza”. Comincia con Portami lontano (n. 4), attraverso la chiave della bellezza e dell’arte (un tango per un argentino emigrato in Europa durante il periodo della crisi economica). Zarathustra dance è invece la metafora del viaggio dentro la propria anima, come hai detto tu secondo un moto verticale di ascesa. Come risalendo su una montagna si estende il punto di vista fino al panorama, così avviene aumentando il proprio livello di coscienza e consapevolezza. Mi piacciono molto la filosofia e le religioni orientali proprio per l’attenzione che danno alla ricerca interiore. Le canzoni successive, Acqualuna e Il vigile sognatore sono ancora canzoni di liberazione. Magari sogni o proiezioni del protagonista di Punti di fuga. La prima è la donna pugliese dell’antichità rurale, che si libera del male infertole dal morso della immaginaria tarantola con il rito della musica e dell’acqua. Il secondo è il visionario senza-tetto che si emancipa dalla sua povertà e dalla sua solitudine mettendosi tutti i giorni in mezzo a una strada a dirigere il traffico come un’orchestra. Nelle tracce successive il percorso diventa più complesso. Non è più solitario, ma in coppia. Ed è scandito ancora dalla musica. In Notturno in tango la scena è quella di una milonga da qualche parte nella notte. Lì il nostro muove i primi passi di tango in compagnia di un’amante, contando ancora i passi, con timidezza, con paura di sbagliare. Poi il loro microcosmo vede nuovi “punti di fuga” e appare l’alba. In Pomeriggio estivo, il brano che segue, la stessa coppia di amanti appare in pieno sole a un passante, mentre danza nel grano, come un miraggio, “leggeri come un film in bianco e nero nel colore, leggeri come solo sa rendere l’amore”. Le ultime due canzoni chiudono il cerchio. Una strana giornata è una finestra aperta su molte delle cose belle per cui vale la pena di vivere e di essere liberi. Niente a che vedere col materialismo del prologo, di Sabbah. E’ la ricerca della bellezza. L’epilogo, Migrazioni, è la fine del percorso. Una visione a tutto tondo. Una considerazione sul tempo e sugli equilibri della natura di cui facciamo parte integrante pur continuando a oltraggiarla con ignoranza. E’ la mia concezione naturalistica, la mia forma di religione. La mia massima forma di libertà.

La tua attività è principalmente “live”, come intendi il rapporto con il tuo pubblico?
Il “live” è il momento dello scambio. Non si suona più solo per sé ma anche per gli altri. Essendo fondamentalmente timido e per niente “animale da palco” (tranne rare eccezioni dovute a qualche causa ignota) mi viene naturale cercare il contatto con il pubblico esclusivamente con la musica e con le parole. Per restare in tema con quanto detto finora, credo che il pubblico sia un ulteriore “punto di fuga” del contesto. E’ il destinatario di quello che esprimi e lo percepisce a modo suo, in maniera differenziata, dandoti in cambio qualcos’altro. La cosa più bella è cantare con gli occhi chiusi e sentire la presenza degli ascoltatori, indistintamente, che stanno lì con te dentro quel mondo che racconti a modo tuo e sembra che provino quello che provi tu. Empatia.

Per chi volesse avvicinarsi all’ascolto, alcune canzoni dell’album possono essere ascoltate sul  suo Myspace. Invito anche a visitare il sito. Quanto al disco, è possibile acquistarlo contattando Federico Palladini alla sua casella di posta elettronica. Per i fanatici del file sharing (legale) presto sarà possibile anche l’acquisto on-line dei brani con download.

Testo e intervista di Giovanni Cellupica

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