Nina (Natalie Portman, fresca di Oscar) è una ballerina del New York City Ballet. Tecnicamente ineccepibile, ossessivamente impegnata in estenuanti allenamenti, Nina vive con una madre asfissiante e ricattatrice che non la fa crescere e la costringe a un’eterna adolescenza. Il suo corpo di ballo deve mettere in scena Il lago dei cigni e, dopo un difficile provino, Nina ottiene la parte di Odette. La ragazza non ha alcuna difficoltà a interpretare il “cigno bianco”, emblema di innocenza e candore. Il problema è essere credibile nel ruolo seduttivo del “cigno nero”. Nina sembra infatti non conoscere il proprio doppio, il proprio lato oscuro. Sessualità e abbandono inclusi. E, ignorando il proprio lato vivo ed erotico, Nina pare incapace di tirar fuori l’emotività necessaria a interpretare Odette. La ricerca della perfezione la condurrà nell’abisso.

Prendete La Pianista di Michael Haneke, ricordatevi di Carrie di De Palma, tenete a mente le “metamorfosi” di tanti film di Cronenberg e, quando vedrete Il Cigno nero, avrete una sensazione incessante di déja vu. Dopo aver vinto il Leone d’Oro con The wrestler, Aronofsky resta ancora sul “sicuro”. Ovvero su un cinema più ammansito rispetto agli esordi scapigliati (Pi greco, Requiem for a dream) ma che, per piacere anche alla vecchia guardia dei fan, non rinuncia al tocco esotico. Tutto sommato gli era riuscito meglio il film con Mickey Rourke, triste apologia dei residuati degli anni Ottanta americani che aveva una sua forte ragion d’essere.

Ragione che, francamente, è difficile trovare ne Il cigno nero, film furbetto in cui la solida struttura (una ragazza repressa che, scoprendo il proprio doppio, sprofonda nelle tenebre) viene infarcita di striature horror e scene raccapriccianti. Abbiamo visto di peggio, ovviamente. E, male che vada, de Il cigno nero si può dire che è un film innocuo. Ma certo non troverete qui nessun tocco di genio. Del resto Aronofsky ne è sguarnito e il suo approdo a un cinema più canonico sgombra il campo da qualsiasi dubbio (per chi ne avesse avuti). La Portman, brava e bellissima attrice, per questa parte era “predestinata” all’Oscar (così come lo era Il discorso del Re che ha battuto l’assai più bello The social network) ma è difficile dire che se lo meritasse sul serio. Il premio esisteva già “sulla carta” per il ruolo in sé: la verità è che Nina è un personaggio monolitico, una maschera con variazioni e la Portman ha fatto di meglio.

Allora, per puro gusto di comparazione, vale la pena citare la vincitrice mancata di questi Oscar, Jennifer Lawrence che in Un gelido inverno regala veramente un’interpretazione coi fiocchi e un personaggio che è il vero “cigno nero” di queste settimane. La sua Ree, combattiva 17enne alla ricerca del padre, deve confrontarsi con il lato tenebroso che la circonda, con una comunità (del Missouri) fatta di esseri umani spaventosi. Spacciatori, drogati, piccoli criminali. Ecco, Un gelido inverno è un film molto più depistante, disturbante e originale del nuovo lavoro di Aronofsky. In cui viene ribadito, ancora una volta, quanto il rigore comprima la vitalità e che il sesso è (anche) sinonimo di morte e follia.

La Nina che metodicamente si esercita ma manca di spiritualità e corpo è una storia così trita che non bastano le allucinazioni progressive a renderla appetibile. Il mondo attorno a Ree, misterioso e impenetrabile, violento e al tempo stesso privo di colpe, è invece molto più interessante. Per cui, se proprio volete un consiglio, date uno sguardo al film di Debra Granik che ha vinto l’ultimo Torino Film Fest e, se proprio avete voglia di morbosi rapporti madre/figlia e di adolescenze irrisolte, riguardatevi Carrie. Che, a differenza de Il cigno nero, nella storia del cinema sarà sempre ricordato con piacere.

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