La decisione era nell’aria ormai da tempo: il ministro Sandro Bondi lascerà il dicastero dei Beni culturali. Nonostante tutti gli sforzi che aveva fatto per salvare la sua poltrona – le raccomandazioni a destra e a manca, le lettere ai parlamentari della sinistra, le promesse (non mantenute) ai deputati della Svp – ieri si è deciso ad abbandonare. Una decisione sicuramente sofferta perché a Bondi quell’incarico piaceva e, nonostante tutto, compresi gli errori che oggi ammette di aver commesso, non aveva nessuna voglia di andarsene. Poi, quando ha capito che i suoi stessi colleghi di partito e di governo lo avrebbero lasciato solo, ha preso carta e penna e ha annunciato l’uscita di scena. Ma di solidarietà, anche dopo l’annuncia, ne ha avuta molto poca. Qualche ricordo sulla sua “straordinaria umanità”, ma nessuna reazione politica del Pdl.
Ma il colpo di scena sarebbe il nome del sostituto: Berlusconi, infatti, avrebbe confidato ai suoi collaboratori di volere il veneto Giancarlo Galan che lascerebbe il ministero delle politiche agricole (con tutta probabilità e come segno di riconoscimento da parte del premier a Bossi) a un uomo della Lega. Resterebbe al palo Fabrizio Cicchitto che, da tempo, aveva espresso il desiderio di un dicastero tutto suo. Ma in questo momento Berlusconi ha bisogno di Ciccchitto come suo uomo ombra e non può permettersi di perderlo per strada.
Una questione che verrà sciolta nei prossimi giorni. L’unica certezza è che Bondi si dimette e lo fa polemizzando con i suoi colleghi di partito che non lo avrebbero difeso come lui avrebbe voluto. L’annuncio lo ha dato con una lettera al Giornale dove esordisce in maniera diretta: “Constato che dalla sinistra alla destra di Marcello Veneziani la soddisfazione per le mie dimissioni è unanime. State sereni, presto li accontenterò”.
Nella sua lettera si dilunga in una (breve) risposta a un editoriale dello stesso Veneziani, testa pensante della grande galassia editoriale di proprietà del Cavaliere, che due giorni fa ha sferrato a Bondi un attacco che definire violento forse è poco: “Sandro Bondi si taglia con un grissino”, ha scritto Veneziani sul Giornale di famiglia. “È tenero e liscio come un tonno, non sopporta gli urti, è fragile e forse teme pure l’umidità. Facile al pianto, più facile alla poesia, non fa parte né dei falchi né delle colombe berlusconiane ma degli usignoli. Sibila lodi in onore del Santo Cavaliere, dedica liriche e ditirambi al suo Mito, e nei rapporti umani ha una naturale, affabile cortesia che lo rende sempre ossequioso”. E ancora: “Anche se in Parlamento hanno bocciato la mozione di sfiducia contro di lui, Bondi è rimasto ferito e non riesce ad andare al suo ministero. E implora il suo Maestro e Signore di lasciarlo a casa, con la sua morosa, per frequentare la politica da privatista. Io non ho un gran giudizio di lui – però non riferiteglielo perché poi ne soffre – come ministro dei Beni culturali, come politico e come poeta. M a trovo questa sua ipersensibilità, questa sua voglia di dimettersi, così insolita e così nobile da meritare un pubblico elogio”.
Così al povero Bondi non è restato altro che annunciare l’addio proprio attraverso Il Giornale e non in una sede più istituzionalmente appropriata. La sua arringa difensiva è al tempo stesso una requisitoria contro coloro che non lo hanno appoggiato. “La decisione di dimettermi – scrive Bondi – è innanzitutto una piena e consapevole scelta di vita maturata in secondo luogo dalle difficoltà incontrate”.
Nel ruolo di ministro, dice, “posso avere fatto degli errori, ma ho realizzato delle riforme importanti e ho imposto una linea alternativa, in senso compiutamente liberale e riformatore, alla politica culturale della sinistra”. Uno sforzo però nel quale non è stato “sostenuto con la necessaria consapevolezza dalla stessa maggioranza di governo e da quei colleghi che avrebbero potuto imprimere insieme a me una svolta nel modo di concepire il rapporto tra Stato e cultura”. Sostegno che peraltro è mancato “nel momento in cui più mi sono trovato in difficolta”, dopo il crollo di Pompei, quando era “più colpito dalla sinistra”, accusato tra l’altro “della mancanza di fondi”, per la quale, aggiunge, “io non ho mai scaricato la responsabilità su altri”.
“Le vicende del Milleproroghe hanno ulteriormente evidenziato la mia incapacità di mantenere gli impegni che avevo preso, e nel richiedere un minimo di coerenza nell’ambito dei provvedimenti riguardanti la cultura”.
“Il presidente Berlusconi – chiarisce Bondi – sa anche che non sono mai stato in cerca di incarichi né di mostrine, sia politiche che ministeriali” e che “voglio avere più tempo da dedicare alla mia famiglia”, che “voglio svolgere bene l’incarico di senatore e che desidero più di ogni altra cosa continuare a lavorare al suo fianco per cambiare questo Paese”.
Da parte sua Galan ha dichiarato che il ministero dei Beni culturali è “il più bello”, ma a lui “dispiacerebbe” lasciare quello dell’Agricoltura. Galan non nega il corteggiamento di Berlusconi. “Bondi – ha spiegato Galan – non ha più voglia di fare il ministro, mi pare che l’abbia detto con grande chiarezza. Che il ministero della Cultura fosse per me il più bello di tutti, il più affascinante, questo non è un mistero. Però – ha aggiunto – adesso mi dispiacerebbe lasciare il ministero dell’Agricoltura perché mi sto divertendo, sto anche facendo delle cose non male, lo sto gestendo in modo diverso dalla stragrande maggioranza dei miei predecessori, che ci ha fatto solo delle clientele. Poi bisogna dire che i mariti – ha ironizzato – sono sempre gli ultimi a sapere”. E chi prenderà la decisione? “Non lo so, io no di sicuro”, ha concluso Galan.