L'immagine stilizzata di un cavatappiUna ricetta per un sugo di aragoste e acciughe.

La realtà esiste, ve lo giuro. Se vi ricordate il metallico apribottiglie a forma di piccolo e incavato triangolo, con il vertice che si prolunga in un altrettanto piccolo ma forte manico, se vi ricordate la resistenza del tappo a corona e il suo improvviso cedere alla forza del vostro far leva, se vi ricordate la soddisfazione del vostro portarvi alla bocca una bottiglia d’acqua afferrandola per il collo, se vi ricordate la piacevolezza che prende il via nella vostra bocca per correre a dissetarvi da privilegiate adulte riarsure o da giovanili corse che hanno bisogno di reintegrare sudorazioni perse, ad esempio, con i vostri figli per giochi a rotta di collo, non potete non sapere che la realtà esiste.

E se la realtà esiste, chiunque vi racconti cose diverse vi porta l’anima lontano, in orribili realtà ricostruite ossessivamente per un falso obbligo informativo che si trasforma, giorno dopo giorno, in una vile e fasulla gestione delle paure collettive. Organizza il potere dell’irrealtà. Paure che trovano forse soluzione nel pavido, ignavo, placante mors tua vita mea. Dove la dolorosa morte in un carro blindato trasforma giovani militari in casuali Cappuccetti Rossi finiti nella bocca di un lupo cattivo. Dove bambine martorizzate e le loro affrante famiglie vengono uccise e riuccise da un oppio televisivo che si fa racconto pieno di inutilità, dove in ossessivi plastici ricostruenti i luoghi dei delitti si finge di indagare, si sospetta il testimone, il marocchino di turno, il branco, l’incapacità investigativa, dove il silenzio stampa chiesto da una famiglia viene indicato, se non come una colpa, come un’eccentrica irresponsabilità.

La realtà esiste e denuncia un delitto meno macabro, meno doloroso individualmente, ma operato su tutta la società. Intere generazioni non formate alla vita, al lavoro, allo studio, all’autonomia di crescita, con la per me naturale e necessaria urgenza del poter diventare rapidamente indipendenti adulti, in un Paese in cui, in alcuni casi, l’andare a morire per guerre non dichiarate è l’unico modo di affrancarsi dall’assenza di un altro lavoro e di più gratificanti prospettive.

Dal canto mio gioisco per ogni giovane cuoco, donna o uomo che sia, che mi affianca, chiedendomi di sbucciare cipolle per iniziali lacrime formative, che portano ad apprendere segrete e raramente ripetibili ricette. Come il dover far pasta per un piccolo assaggio per e a 100 persone avendo avuto da un amico pescatore in regalo due aragoste prese davanti a Cavoli, all’Isola d’Elba, in una secca non meglio precisabile, e volendo anche star lontano dall’avido desiderio di mangiarsi in quasi solitudine e segretamente questi meravigliosi tre kg con una garbata maionese.

Tirate in debita proporzione del pomodoro in un aglio tritato e soffritto fino al colore oro dopo averci stemperato, e questo è il segreto, qualche filetto d’acciuga sotto sale. Appoggiateci dentro le aragoste spaccate per leggera stufatura. Dopo di che, quando le carni risulteranno compatte, sgusciatele con attenzione liberandole dall’armatura del crostaceo. Gusci che farete bollire per più di un’ora in un brodo vegetale che addenserete fino quasi a una riduzione totale. Riduzione con cui allungherete il sugo dove avrete anche spezzettato tutte le preziosi carni dell’aragosta.

Il sugo dovrà risultare esageratamente umido perché ci risalterete dei taglierini all’uovo praticamente lasciati crudi e che termineranno la loro cottura al dente dentro l’umidissimo sugo dove, se volete, potrete aggiungere pepe, peperoncino, prezzemolo o, in stagione, foglie di basilico spezzettate. La potenza dell’acciuga solleverà tutta la profumazione dell’aragosta rendendola percepibile forchettata dopo forchettata. Che l’olio usato sia abbondante e di grande qualità, per obbligatoria e necessaria untuosità. W la realtà.

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