Manca il tempo, e non si sa bene perché. Chi ce l’ha rubato? Come riprendercelo? Sono tanti gli analisti sociali che parlano già da alcuni anni di “mutazione antropologica”, ma cosa si nasconde dietro questa incombente definizione?
A tal proposito, ciò che noi psicologi, a contatto con varia e dolente umanità, osserviamo ovunque è proprio una drastica contrazione del tempo per sé, fenomeno questo che è stato osservato anche in una recente ricerca e riguarda gli ultimi decenni. La mutazione antropologica corrisponde allora in primo luogo ad una forte alterazione sia della quantità che della qualità (il vissuto) del tempo, avvenuta in pochi decenni. Molte le cause “oggettive”: dall’aumento del carico lavorativo, della competizione e precarizzazione sul lavoro, alla tendenza a proseguire il lavoro da casa, all’abuso delle nuove tecnologie comunicative che ci rendono sempre raggiungibili, all’aumento della mobilità sociale con relativa la frantumazione delle reti sociali.
Molte anche le domande che si affacciano: perché si rende necessario nel nostro sistema sociale annullare il tempo per sé? Quale percorso e concorso di cause storiche, sociali e psicologiche ci hanno condotto ad espropriarci del nostro tempo? Come è potuto succedere che il tempo lavorativo abbia colonizzato il tempo vissuto individuale e familiare, ridefinendone le regole ed il linguaggio? Quali conseguenze ulteriori sui nostri apparati sociali e psicologici comporta questo cambiamento?
Tale erosione del tempo coincide intanto con una mutata assegnazione interna del tempo, una scala di valori interna completamente differente da quella di pochi anni fa, per non parlare di epoche precedenti, dove era ben chiaro a tutti il confine esistente tra le differenti temporalità della giornata, della settimana, dell’anno, delle circostanze diverse della vita (lavoro, casa, occasioni sociali, etc.). Nessuno si sarebbe mai sognato fino a pochi anni fa di ricominciare a lavorare una volta staccato dal luogo di lavoro, o nessuno avrebbe mai immaginato di rimanere in contatto con colleghi o amici senza darsi un limite. Il modo multitasking di esistere, così naturale oggi, era fino a poco tempo fa una follia.
La nuova scala dei valori nell’assegnazione del tempo si è plasmata su nuove esigenze identitarie che appaiono orientate da prevalenti criteri economicistici. O come avrebbe detto Foucault, il mercato, con le sue logiche e i suoi codici, è il principale luogo di veridizione, cioè di costruzione di verità, e quindi anche d’identità della nostra epoca.
Perché allora mancare all’appuntamento con se stessi, la propria solitudine, la propria corporeità, la propria sensorialità, i propri proto-pensieri, il proprio onirismo preconscio? Parafrasando un importante e recente testo di Massimo Recalcati, potremmo definire l’attuale uomo contemporaneo come l’uomo senza preconscio. Quando diciamo preconscio stiamo parlando di quella vasta gamma di esperienze mentali che sono connesse proprio con il tempo da dedicare a se stessi, dove si è soli con se stessi, e che è fondamentale nell’economia della vita psichica.
C’è invece qualcosa nella nostra rappresentazione sociale che dichiara questo tempo come un disvalore, un tempo perso, inidoneo per chi voglia sentirsi parte dei processi sociali. E c’è una maggioranza di noi che non può fare a meno di aderire a questo invisibile diktat e viene travolto dall’affannoso rincorrere il nulla. Ci si scopre ad essere attaccati ai dispositivi comunicativi moderni come morenti alle flebo: gli ultra 50 prediligono la televisione, gli under 50 il computer, il telefonino e, a scendere, videogiochi e sempre nuovi dispositivi di connessione e raggiungibilità che si propongono come del tutto alternativi al “me time”.
Quali conseguenze e quali scenari ci attendono spingendo avanti l’attuale proiezione di questa umanità intasata nonché deprivata di sensorialità, corporeità, intimità, introspezione? Forse un tipo di umanità più disumanizzata, o forse più annoiata, apatica, intenta a superare la noia attraverso la compulsività. Con l’esito che noia e compulsività s’inseguano circolarmente all’infinito paralizzando la nostra naturale mobilità psichica.
Compito arduo per noi psicologi quello di calarci in questi nuovi modi di esistere che appaiono in prima battuta irraggiungibili, ma che fortunatamente celano un’umanità ancora viva e pulsante sotto il metro di fango prodotto dai nostri stili di vita.