La multinazionale americana potrebbe infatti evitare la pena. Un Trattato bilaterale tra gli Usa e l’Ecuador firmato nei primi anni ’90 sancì che Chevron sarebbe stata libera da ogni obbligo, nel caso avesse riempito almeno un terzo delle “piscine” costruite per contenere gli scarti dell’estrazione petrolifera
Rischiano di essere vani i festeggiamenti in Ecuador per la “storica” sentenza che vede condannata la compagnia petrolifera Chevron al pagamento di una multa iperbolica: oltre 9 miliardi di dollari per danni irreversibili all’ambiente e alla popolazione locale. La multinazionale americana potrebbe infatti evitare la pena. A tre giorni dalla sentenza, una sezione della Corte permanente di arbitraggio dell’Aja proibì temporaneamente l’applicazione di ogni sanzione giudiziaria proprio a carico della compagnia petrolifera. Il motivo? Un Trattato bilaterale tra gli Usa e l’Ecuador firmato nei primi anni ’90 sancì che Chevron sarebbe stata libera da ogni obbligo, nel caso avesse riempito almeno un terzo delle “piscine” costruite per contenere gli scarti dell’estrazione petrolifera.
Per Chevron, che ha fatto causa ai popoli indigeni ed ai loro avvocati con l’accusa di estorsione, la sentenza della Corte ecuadoriana è quindi “illegittima e inapplicabile”. Una brutta sorpresa per gli oppositori del colosso americano. Che, sul piano giuridico, potrebbe in effetti avere ragione. E che punta il dito su un altro responsabile dei disastri ambientali nelle zone interessate: lo Stato ecuadoriano.
Era già stata una vittoria a metà: dei 27 miliardi richiesti dagli indigeni e dal loro avvocato, Pablo Fajardo, che da vent’anni si occupa del caso, Chevron è stata condannata dal giudice Nicolàs Zambrano al pagamento di 8,6 miliardi di dollari per risarcire i danni, più una multa da 860 milioni per l’Amazon Defense Coalition, che rappresenta i querelanti. “Una somma insignificante rispetto al reale crimine commesso”, aveva lamentato l’avvocato, ma “comunque un passo in avanti verso il trionfo della giustizia”. Un “crimine ambientale, culturale e umano”, che potrà portare la Corte a raddoppiare le sanzioni, ora che Chevron ha ribadito che non si scuserà pubblicamente, come avrebbe dovuto fare entro quindici giorni dalla sentenza. Un sogno ad occhi aperti, per gli ecuadoriani. Che, però, sta svanendo di settimana in settimana. E che presto potrebbe definitivamente tramontare.
“Sia le corti Usa che i tribunali internazionali hanno già preso le dovute misure per prevenire l’applicazione della sentenza emessa dalla corte ecuadoriana”, affermano i legali del colosso petrolifero. Convinta che “in qualsiasi Stato di diritto questa sentenza sia inapplicabile”, Chevron a livello giuridico potrebbe avere anche ragione. Oltre alla proibizione temporanea dell’applicazione di sanzioni giudiziarie a suo carico, decisa solo tre giorni prima della sentenza dalla Corte permanente di arbitraggio dell’Aja, un Trattato bilaterale tra gli Usa e l’Ecuador risalente ai primi anni ’90 stabilisce infatti che la Texaco, compagnia petrolifera assorbita da Chevron nel 2001, non sarebbe vincolata da obblighi nel caso in cui avesse riempito un terzo delle “piscine” costruite per contenere gli scarti dell’estrazione petrolifera. Se Chevron riuscirà a dimostrare di averlo fatto, la sentenza sarà quindi annullata. Un’impresa che non sembra delle più difficili.
Non solo, la difesa di Chevron vuole andare sul sicuro, ed incolpa un’altra compagnia, la statale Petroecuador, delle 260 pozze sparse nella zona di Sucumbíos, causa principale del disastro ambientale e sanitario. Altro punto a sfavore degli ecuadoriani, dato che la compagnia di casa ha le sue belle responsabilità. Presunte colpe legate al fatto che, nel 1996, Petroecuador ha firmato un contratto di partecipazione con il governo e la Compagnia Generale di Combustibili argentina per lo sfruttamento petrolifero di duecentomila ettari di terra, nei territori delle Nazioni Ancestrali dell’Amazzonia Ecuadoriana. Concessione data senza consultare i popoli indigeni, e violando l’Accordo di Sarayaku, con il quale lo Stato proteggeva quel territorio proprio dallo sfruttamento petrolifero.
Chevron utilizzerà tutto ciò per evitare il pagamento della multa “storica” di cui si parla da un paio di settimane. A cui si aggiunge, sempre a vantaggio della multinazionale statunitense, un ordine temporaneo di restrizione emesso da un giudice di New York: alla parte civile viene impedito di ricevere compensi prima che ogni decisione giudiziaria sia definitivamente presa.
Insomma, a otto anni dall’inizio del processo e a ben 47 dall’arrivo di Texaco nella zona di Sucumbíos, gli abitanti di Lago Agrio possono sì festeggiare quella che è comunque la prima vittoria ottenuta da una comunità indigena nei confronti di una corporation del petrolio. Ma i dollari di Chevron destinati a risarcire questa provincia amazzonica al confine con la Colombia molto probabilmente non arriveranno mai.