Governare è faticoso, ma garantirsi la sopravvivenza costa caro, carissimo. Specie se chi hai comprato per riuscire a resistere in barba ad ogni regola poi presenta il conto e ti tocca pure nominarli “todos caballeros”. E così il governo diventa qualcosa che a confronto il mucchio selvaggio fa ridere.
Il rimpasto è quasi servito. E nessuno resterà senza cena. Almeno sulla carta. Silvio Berlusconi è al lavoro, a giorni tirerà fuori “una squadra nuova di zecca”. E saranno volti e nomi che il grande pubblico conosce; c’è grande attesa per conoscere su quale poltrona siederà Domenico Scilipoti, ma anche su Maria Grazia Siliquini volano scommesse. Il tempo stringe. Mentre gli avvocati, sotto l’attenta regia di Giuliano Ferrara, studiano la strategia-mediatico difensiva per consentire a Berlusconi di girare a proprio vantaggio la raffica di processi di Milano, il Caimano ha la mente puntata alla tenuta del governo e, soprattutto, ai numeri della Camera. Da giorni Verdini e Alfonso Papa (sì, proprio lui, quello implicato nell’affaire Bisignani-Woodcook) sono alla spasmodica ricerca di nuovi “responsabili”.
Lo stesso Cavaliere è tornato a sperare in alcuno di Fli come Carmine Patarino, Giulia Cosenza e Andrea Ronchi. Solo che ora i “Responsabili” della prima ora, nomi che rimarranno scolpiti nella memoria per aver salvato il Caimano il 14 dicembre scorso come Catia Polidori, Massimo Calearo e Saverio Romano, battono cassa. Vogliono che gli sia pagato quanto promesso in cambio di quella fiducia. Il Cavaliere sembra temporeggiare, ma sa che più prima che poi dovrà mettere mano al rimpasto. Un po’ per volta, dicono i suoi, perché altrimenti Napolitano si potrebbe mettere come al solito di traverso sostenendo, casomai, che se c’è bisogno di rimettere mano in modo così incisivo alla compagine di governo, allora tanto varrebbe aprire una crisi formale. E poi c’è anche la paura del Cavaliere, molto umana, che una volta “pagati”, i “responsabili” poi non si comportino più come tali. Che qualcuno – cioè- possa sfuggire al guinzaglio corto del capogruppo Fabrizio Cicchitto e casomai, proprio sul più bello, quando si dovrà votare sul conflitto d’attribuzione contro il Tribunale di Milano, gli faccia mancare quel plebiscito numerico che agogna per sfruttarlo in senso mediatico e propagandistico.
Un bel problema per l’orda dei “todos caballeros” in pectore. Ma fosse questo il solo guaio. C’è anche una questione legata ai numeri, su cui Napolitano ha già detto che non ne vuole sapere di approvare cambiamenti, specie in un momento di crisi come questo. E’ solo che per accontentare tutti bisognerà mettere mano alla legge sul numero dei dicasteri. Varata nel ’99 da Bassanini, la normativa prevede che il governo possa essere composto da massimo 12 ministri e 60 tra viceministri, sottosegretari e ministri senza portafoglio.
Berlusconi ha già annunciato che presenterà un disegno di legge per consentire l’aumento del numero dei sottosegretari. “Dobbiamo aumentare il numero di sottosegretari e stiamo preparando un disegno di legge a riguardo, ha detto. “Essendo chiamati ad una presenza continua durante le votazioni abbiamo bisogno che il numero di sottosegretari aumenti”.
In verità, la Bassanini è stata rivista già due volte, la prima proprio da Berlusconi nel 2001 (per decreto) elevando il numero dei ministri a 14, poi da Romano Prodi nel 2006 (si ricorderanno le ragioni di tenere in piedi una coalizione molto frastagliata) che sempre per decreto portò il numero a 18. Infine nel 2007, la Finanziaria riportò tutto all’origine (ragioni di crisi economica e di razionalizzazione della spesa pubblica) e dunque il numero è ritornato a massimo 12 ministeri e 60 vice vari di contorno. E così stiamo nella media europea; in Francia Sarkozy ne ha 15 (ma teoricamente potrebbe arrivare a 22), in Germania sono in 16 compresa la Cancelliera Angela Merkel e in Grecia sono solo 12. E’ che, casomai, negli altri Paesi il plateau dei succedanei è praticamente inesistente; in nessuno dei tre Paesi citati c’è l’ombra di un “viceministro”, mentre i sottosegretari (figure chiamate in modo diverso a seconda della nazione) sono al massino una quindicina (il caso della Francia).
Certo, un ennesimo ritocco della Bassanini non ci poterebbe fuori dall’Europa, i costi connessi forse si. Ma non è certo questo il problema del Caimano. Per lui ora è necessario battezzare i Responsabili “todos caballeros”, blindare nuovamente la maggioranza alla Camera e sperare, in questo modo, di portare a casa il prima possibile il propcesso breve, con annessa prescrizione breve inserita dentro come emendamento d’aula. Ecco perché il rimpasto ci sarà, anche se non subito. E pazienza se i numeri aumenteranno a dismisura portando (almeno queste le stime) a 70 il numero dei viceministri e sottosegretari. E oggi sono già 50.
Si ricorderà anche che Berlusconi, in tempi non sospetti, si è sempre fatto paladino dei “pochi ministri, ma buoni”, arrivando addirittura a preconizzare la riduzione del numero dei parlamentari, ma era davvero una stagione diversa. Oggi c’è da pagare dazio e dunque si sta studiando un disegno di legge (non un decreto, attenzione) per allargare nuovamente la compagine di governo soprattutto sul numero dei sottosegretari e dei viceministri; un modo, sostiene il Cavaliere, per raggiungere il risultato e non incorrere negli strali del Quirinale, ma è solo un suo pensiero come tanti.
Napolitano vigila, sa che Berlusconi gli chiederà di allargare il governo, ma per il momento lui potrà accettare – si è sempre fatto sapere dal Colle – solo la sostituzione di quei ministri e sottosegretari che hanno lasciato il posto. Come Andrea Ronchi, per esempio. Già, proprio lui, uno che un giorno dice che Fini è ancora la sua luce e che subito dopo ammicca a Verdini per fargli capire di voler tornare indietro. Per lui sarebbe già pronto il posto di ministro delle Politiche comunitarie. Sarebbe un ritorno clamoroso che porterebbe Giancarlo Galan alla Cultura e Saverio Romano all’Agricoltura. Il problema è che la Lega si oppone. E per cercar di convincere Umberto Bossi e Giulio Tremonti, Silvio sta giocando l’arma delle nomine pubbliche. Perché anche lì c’è da pagare qualche dazio di troppo, oltre a dover blindare interessi che non hanno nulla, ma davvero nulla a che vedere con il bene e lo sviluppo del Paese.