Cultura

A Milano va in scena ‘Una notte in Tunisia’
Grande attesa per le musiche di Avital

In scena al Teatro Parenti dal 22 marzo il monologo di Vitaliano Trevisan con Alessandro Haber. ldeatore, compositore e regista della scenografia sonora, il direttore israeliano già noto in Italia per "Samaritani". Tre giorni per registrare la sua composizione «per un organico corale e strumentale di massa»

di Valeria Gandus

Tre giorni di prove e registrazioni, 93 coristi, una soprano, una trentina di fisarmonicisti, due bassi tuba, un clarinetto, un didgeridoo, una pietra sonora, quattro direttori. E, sopra tutto e tutti, lui: Yuval Avital, 33 anni, l’ideatore, compositore e regista della stupefacente scenografia sonora di un monologo che andrà in scena al Teatro Parenti dal 22 marzo prossimo: Una notte in Tunisia, di Vitaliano Trevisan, con Alessandro Haber, per la regia di Andrèe Ruth Shammah. Nessun riferimento al celebre standard jazz, molti a Bettino Craxi e al suo esilio (o, se si preferisce, latitanza) in quel di Hammamet, Tunisia, appunto.

Ma che cosa può interessare a un trentatreenne originario di un Paese, Israele, che già ha i suoi bei problemi, di Bettino e della sua solitudine tunisina? Non molto. Infatti la scenografia sonora di Avital è del tutto indipendente dal testo teatrale e ha anche un diverso titolo: Mise en abîme (il riferimento è a una tecnica artistica nella quale un’immagine contiene una piccola copia di se stessa, ripetendo la sequenza apparentemente all’infinito). Moltissimo, invece, importa al giovane compositore conosciuto in Italia per Samaritani (opera andata in scena a settembre per MITO) di poter registrare la sua composizione «per un organico corale e strumentale di massa» con le strumentazioni più moderne e sofisticate messe a disposizione dalla Rai di Milano. Con, in più, un gruppo di importanti musicisti (uno su tutti Massimo Gorli, fra i massimi direttori d’orchestra europei) e una pletora di perfetti sconosciuti (i coristi), nella stragrande maggioranza digiuni di tecnica vocale se non palesemente stonati.

Questo è appunto ciò che è avvenuto nelle tre giornate dal 28 febbraio al 2 marzo nello studio 3 della Rai di corso Sempione, Milano, quello di Fabio Fazio e Luciana Littizzetto, per intenderci, dove tutto l’ensemble si è autorecluso per tre giorni, con il solo conforto di bottigliette d’acqua e macchinette del caffè, senza percepire un centesimo (i musicisti, alcuni dei quali venivano da lontano, solo un rimborso spese).

Un’esperienza da raccontare un domani ai nipoti. O almeno, oggi, agli amici più stretti. Un evento che ha incuriosito i dipendenti Rai che sbirciavano sconcertati quella torma di studenti, pensionati, disoccupati e liberi professionisti intenti a sussurrare, soffiare, ululare, fischiare e rarissimamente intonare qualche nota, secondo le indicazioni dei direttori di coro e dello stesso Avital. Il tutto al cospetto di un’entità ‘mitica’, la sonda Ambisonic, un mega microfono ideato e brevettato dal Centro di ricerche Rai di Torino in collaborazione con l’Università di Parma: in pratica un sofisticatissimo microfono in forma di sfera, dotato di 32 capsule in grado di captare con precisione millimetrica ogni suono emesso a 360 gradi.

Il risultato è una registrazione di 100 minuti dove l’abisso del titolo è il suono prodotto da voci e strumenti secondo una partitura (per le voci) del tutto inusuale: una sequenza di grafici colorati che invitano a riprodurre di volta in volta il «ricordo di uno stormo di uccelli», un «suono di mare», un «suono di vento», oltre a fonemi intercalati da parole, o frasi (dal senso non compiuto) sussurrate o gridate, per non parlare dei mantra da recitare con voce grave le donne, acuta i maschi, con risultati irresistibili.

Ma perché Avital ha scelto proprio questa forma espressiva? Perché coinvolgere tante persone comuni, digiune di quella musica contemporanea così ostica per orecchie non educate? «La mia è una scelta insieme etica e ideologica» spiega Avital. «Desideravo uscire dalla gabbia del pentagramma e riferirmi alla tradizione popolare europea ed extraeuropea. Volevo una gestualità e una sonorità libere da qualunque costrizione. Soprattutto, intendevo abbattere la barriera fra esecutore e spettatore e riunificarli in un’unica entità». Ecco la chiave: lo spettatore diventa esecutore, addirittura autore, comunque parte essenziale dell’opera. E, finalmente, la capisce. Quel ricordo di uno stormo d’uccelli è il suo. Il mare che sgorga dai soffi vocali è quello che sta nel suo cuore e nella sua memoria. E l’alba che infine sorge dopo l’abisso della notte, è la prima luce che illumina di speranza la sua vita.

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